Francesca Del Grande/ Latina Oggi

FondifilmFestival

Continua il lungo tour di presentazioni in tutta Italia di «Morire di lavoro», un viaggio doloroso nei cantieri d’Italia, lì dove spesso regna l’omertà e dove la sicurezza degli operai è a rischio. E’ un documentario che inquadra diverse città del Paese, realtà diverse ma legate dal filo conduttore della sofferenza. La trama narrativa si sviluppa attraverso racconti e testimonianze, voci che si succedono, dialetti diversi e parole che pesano come macigni: «… Si vedono cose allucinanti. Perchè muore tanta gente? Mica siamo in guerra. Noi andiamo a lavorare… E vogliamo tornare a casa la sera».

Il regista oggi ospite della rassegna, lo avviciniamo…

«MORIRE di lavoro», un'emergenza nazionale, una realtà terribile che Daniele Segre ha indagato con un film che dice di incidenti nei cantieri edili, di lavoro nero e di caporalato, della mancanza di sicurezza ma soprattutto della dignità dell'uomo offesa da un'illegalità che non rispetta, non garantisce un diritto fondamentale, sancito dalla Costituzione.
Il regista dà voce agli operai, ai familiari di chi di lavoro è morto, alle vittime, agli immigrati. E sono parole che pesano come macigni (Anche a un elefante serve una giornata per morire… A noi bastano due ore), espresse in dialetti diversi, in lingue diverse, legate dal filo conduttore del dolore. Il suo documentario sarà proiettato oggi nell'ambito del FondiFilmFestival, alle 21.15, ospite lo stesso Segre.

Avviciniamo il regista per parlare di questa opera già presentata alla Camera dei Deputati il 12 febbraio scorso e successivamente al Parlamento Europeo. E’ un film di denuncia, una testimonianza difficile che ha trovato anche molte resistenze davanti alle richieste di collaborazione per produrlo.

Come nasce il progetto, quale il percorso seguito?

«Il film nasce dalla mia grande indignazione rispetto alla situazione in cui si trovano i lavoratori. Mi sono deciso di avviare questo viaggio di ricerca per raccontare la realtà, in particolare il mondo dell'edilizia dove avviene una percentuale di incidenti molto alta, sia mortali che gravemente invalidanti. Avevo provato anche a contattare Istituto Luce e Rai 3
per avere la collaborazione del servizio pubblico ma non ho ottenuto alcuna risposta. Il film l’ho prodotto da me, con la mia società “I Cammelli”. Grazie al sostegno della Fillea Cgil, che mi è venuta in aiuto, ho potuto poi incontrare molti lavoratori in quattro regioni italiane: Campania, Lazio, Lombardia e Piemonte».

Resistenze, ritrosie… Come spiega queste reazioni di fronte all'idea di un film del genere?

«Sì, una situazione di chiusura che ha riguardato anche la diffusione del film per quanto riguarda i media. Penso ci sia un muro di indifferenza colpevole. Che dire del rifiuto del Festival di Venezia di inserirlo nel programma sulla base del fatto che l’opera non era inedita? E pensare che hanno riesumato “Yuppi du”. Comunque una visibilità esiste perché “I Cammelli”, ed io in prima persona, ci stiamo occupando della distribuzione nel territorio nazionale. Sono sempre in viaggio per questo motivo da quando c'è stata l'anteprima alla Camera dei Deputati».

«Morire di lavoro» entrerà nei circuiti dei cinema?

«Per ora no, ma il 3 ottobre il film è in concorso al Festival documentario di Annecy, in Alta Savoia e, a fine ottobre, sarà al Festival dell'Ambiente che si svolge a Torino. Sono numerosissime poi le richieste di proiezione, chiunque fosse interessato può prenotarsi presso il mio sito, www.danielesegre.it »

Già portato nelle scuole, nelle università, «Morire di lavoro» è stato accolto con partecipazione dai giovani, forse la più grande soddisfazione per un regista che lo ha creato e lo ha voluto con forza…
«Ho avuto delle testimonianze e delle attestazioni straordinarie per la capacità che ha il film di stimolare le coscienze e far conoscere il mondo del lavoro. Ho inteso offrire una possibilità di riflessione molto approfondita non solo sulla problematica della sicurezza, che comunque è centrale, ma anche rispetto alla cultura e alla dignità del lavoro che è l’aspetto particolarmente significativo dell’umanità. Ecco, il film promuove la dignità».

Non ci sono catalogazioni di film di parte?

«Il timore non c’è. E’ un film duro perché racconta la verità. E la verità fa male, però è necessaria per maturare alcune cose».

Segre, lei ha trattato la sofferenza, ha affidato il ruolo degli interpreti a gente reale, mogli, madri delle vittime, manovali, operai che raccontano la loro vita di lavoratori, fatta spesso di sfruttamento, di precarietà, di paure e di rischi, ma non è caduto nella trappola di drammatizzarla…

«Non sono dell'idea di strumentalizzare la sofferenza, non approvo il metterla in scena, l’offendere così i vivi e i morti. E’ una cultura che propone altri modelli e non mi riguarda».

Ultimamente il tema lavoro è stato oggetto di diverse produzioni. Penso ai lavori della Comencini («In fabbrica»), della Labate («La signorina Effe»), ai film di Celestini…

«Io sono 34 anni che faccio questo mestiere, occupandomi con serietà della realtà italiana e del sociale in particolare. Ho visitato tutti gli stadi della condizione anche drammatica delle persone, dalla malattia alla violenza, alla sofferenza in generale».

Ritiene che il Parlamento sia veramente pronto ad intervenire con leggi e mezzi adeguati in merito alla sicurezza sul lavoro?

«La questione deve essere portata sull'agenda del Consiglio dei Ministri e deve riguardare tutte le forze politiche, nessuna esclusa. Con questo senso di responsabilità le cose da fare sarebbero chiare e si potrebbe intervenire con più rigore. Le leggi ci sono ma non vengono rispettate. Le forze politiche tutte dovrebbero partecipare a costruire la premessa di una società civile come la nostra si definisce»

Lei ha scelto di inserire durante il film anche l'Inno di Mameli. Una provocazione o un messaggio ben preciso?

«Ho inserito l'Inno di Mameli perché il film riguarda tutta la nazione. Anzi, alla fine, quando si materializzano i titoli che compaiono sopra l'immagine dell’Altare della Patria, l’Inno compare nel sonoro in quanto credo fermamente che tutti i morti sul posto di lavoro debbano essere equiparati ai soldati che hanno dato la vita per il Paese. Perché di questo i lavoratori sono l'ossatura».