Marzia Todero/Divieto di Senso

Quella che segue è l’intervista che Daniele Segre ci ha rilasciato circa la sua produzione cinematografica sulla questione del lavoro. Attraverso gli sguardi, le parole, i volti e le storie dei suoi protagonisti, Segre coglie il lavoro e la sua perdita, come sede di un conflitto che non riguarda solo il bisogno economico ma anche il bisogno di identità individuale, collettiva e territoriale. I suoi film sono la dimostrazione di come la testimonianza personale possa avere una ricaduta nella sfera pubblica e, ancora una volta, politica facendosi narrazione condivisibile. La ricognizione biografica non è dunque solo un modo per apprendere qualcosa su di sé ma possiede anche componenti emancipatorie sia per il narratore che per l’ascoltatore. In questo modo l’esperienza non solo di sé diventa costruzione di nuovi saperi.Lei ha realizzato una serie di film dedicati al lavoro e attraverso di essi ci ha raccontato i vissuti di sconfitta del movimento operaio italiano durante il referendum FIAT; ci mostrano la tragedia della precarietà permanente degli edili; la morte sul lavoro; la lotta per il lavoro dal fondo delle miniere alle cime dei serbatoi di gas propano.

Il lavoro è certamente uno dei miei temi più cari ed in effetti ho fatto molti lavori sul tema avendo come protagonisti i lavoratori in situazioni particolarmente delicate e difficili come quando si sta perdendo il lavoro. Proprio per questo i miei non sono documentari ma film. Quello che io ricerco infatti è un senso di universalità che trascenda la documentazione del semplice evento e che consenta allo spettatore l’apertura ad una riflessione e d a me stesso l’espressione della mia identità di ricercatore nel mio rapporto con la realtà.

La testimonianza è anche un modo per evidenziare le implicazioni pubbliche della sfera privata. In questo suo porsi “in ricerca” c’è un intento di denuncia o un intento puramente narrativo?

Le cose vanno di pari passo. Non parlerei di denuncia ideologica ma di testimonianza, presenza, vicinanza necessarie laddove si cerca di esprime il senso di un’identità, in questo caso perduta, rispetto alla titolarità di far parte del mondo del lavoro.
Comunque se io sono capitato in una determinata situazione è perché ho scelto di capitarci per vivere un rapporto con i protagonisti o con quelli che saranno poi i protagonisti della storia che io ho in mente di voler raccontare. Sono situazioni motivate da scelte mie di impegno rispetto a determinate questioni magari improvvisamente nate da una mia curiosità a partire da una notizia colta da un telegiornale o un radiogiornale oppure dalla mia indignazione di fronte al fatto che, in Italia, continuano ad esempio, a morire tre, quattro lavoratori ogni giorno.

Possiamo definirli film sociali?

Io li considero film di utilità pubblica. L’obbiettivo è quello di costruire e stimolare una sensibilità, una consapevolezza e non obbligare lo spettatore a pensarla come la pensa il regista ma ad avere la capacità di fare una riflessione profonda su quello che la storia di quel regista propone e offre.

Nei suoi film, attraverso le testimonianza, ci parla della perdita del lavoro intesa non solo come perdita di un reddito ma anche di un’identità.

La testimonianza è un elemento attivo della strutturazione del racconto. L’approdo a cui si mira è un senso di universalità di quella storia che viene raccontata che si tratti della storia ambientata in miniera o nel corso di un presidio davanti a Mirafiori.
In certi casi lavoro solo sulla testimonianza come per in Morire di lavoro; in altri invece è un calarsi in una situazione che si sta evolvendo nel bene e nel male in una drammatica lotta sia essa consuma nelle profondità di una miniera di Carbosulcis o sopra i bomboloni di gas propano come in Asuba de su serbatoiu, oppure nel corso del presidio davanti ai cancelli della FIAT durante la giornata del referendum. Inoltre Realizzare film che si basano sulle testimonianze è una questione molto delicata che parte dalla lealtà che il regista deve avere nei confronti di quella realtà e in particolare di quelle persone. Non li si può tradire. Specialmente in una situazione così delicata e difficile in cui essi vivono la drammaticità, la tensione e lo stress del rischio della perdita del lavoro se non la perdita del lavoro o addirittura della vita vera e propria.

Quale accoglienza hanno avuto i suoi film?

La visibilità, l’utilizzo e la diffusione di questi lavori è direttamente proporzionale alla capacità della mia società i cammelli, che ha prodotto i film, di far sapere che esistono. Perché in certi casi i giornali non ne parlano e a volte noi stessi siamo perplessi perché non ne parlano, specialmente nella stessa città in cui vivo e opero che è Torino3. Comunque il film che ha girato di più anche accompagnato al sottoscritto è Morire di lavoro che continua e porta avanti il suo percorso di sensibilizzazione sulla questione della sicurezza.