www.radiocinema.it – FUORICAMPO (Rubrica a cura di Laura Croce)

Il tema delle morti bianche è riemerso sulla scena pubblica italiana solo di recente. Riscoprire questa realtà, trascurata per anni, non è stato difficile solo per il chiacchiericcio mediatico, ma anche per il grande schermo. Non a caso, i film che se ne sono occupati hanno scelto strade molto diverse, un po’ come possono esserlo le varie reazioni al problema. “Morire di lavoro”, il recente documentario realizzato da Daniele Segre, ha scelto la classica via dell’indignazione. Il suo progetto, maturato ben prima della tragedia ThyssenKrupp, consisteva nel dar voce alle tante vittime d’infortunio e ai parenti degli operai che, ogni giorno, perdono la vita nei cantieri. Il regista, da sempre impegnato nel “cinema della realtà”, ha raggiunto l’obiettivo senza fronzoli, concedendo poco o nulla alla finzione narrativa: “Morire di lavoro” è costruito tutto su interviste faccia a faccia, realizzate con una camera fissa, piazzata vicinissimo al volto dei testimoni. Nessuna patetica ripresa in loco stile “Vita in diretta”, dunque, ma predominanza di primi piani stagliati su sfondo nero. Segre, in pratica, vuole trascinare a forza il pubblico di fronte alle persone colpite dalla tragedia, per costringerlo a fare la loro conoscenza e ad ammettere una realtà scomoda, di cui tutti intuiscono i contorni ma non la sostanza.

Appena un anno fa, però, la cinematografia italiana offriva un’altra via praticabile: quella incentrata sulla presa di coscienza graduale e sconvolgente. In “Apnea”, di Roberto Dordit, lo sfruttamento del lavoro nero e il risparmio guadagnato a scapito delle norme di sicurezza, erano al centro di un thriller vero e proprio, ricco di implicazioni sociali. In questo film del 2007, gli incidenti letali in cantiere erano ancora un Fuori Campo inquietante: un’ombra capace di inghiottire poco a poco l’intero mondo apparentemente impeccabile dei piccoli imprenditori del nord-est. Si tratta di una prospettiva piuttosto diversa da quella di “Morire di lavoro” e dal suo tentativo di risvegliare le coscienze sopite. “Apnea”, d’altra parte, risulta forse meno scontato e più provocatorio, poiché finisce per mettere davvero in scena l’ipocrisia e la spietatezza di quei “padroni” a cui il documentario di Segre accenna soltanto. Le due formule sono più o meno interessanti e originali, ma, come al solito, non avranno nemmeno la possibilità di confrontarsi seriamente: visto come sono stati (non) distribuiti e (non) pubblicizzati, è probabile che nessuna arrivi a sfiorare il dibattito in modo significativo.