Tonino Bucci/Liberazione

Non è facile percepire quanto sia cambiato il mondo che ci circonda. Il territorio, il nostro paese, la nostra città, il nostro quartiere, le case e le strade vicino a casa nostra. I nostri occhi si sono abituati a veder scomparire l’orizzonte e nascere interi conglomerati di palazzoni e villette a schiera. Così, qualche tempo fa scriveva il sociologo Ilvo Diamanti. La dilatazione edilizia (tutta in mano ai privati, l’edilizia popolare e pubblica essendo scomparsa quasi del tutto) è la piaga del nostro paese. Ogni anno si consumano centomila ettari di campagna, due volte il parco nazionale d’Abruzzo (e per avere misure dello scempio basta rinviare ai dati Eurostat, meglio ancora se raffrontati con quelli di Germania e Francia).
L’edilizia (privata) non fa solo scempio di territorio. Non solo è stata fonte di speculazione e ricchezze facili. Non solo ha costruito quartieri anonimi e villette in serie che distruggono relazioni e legami di comunità, e rendono le persone estranee l’una all’altra. L’edilizia è anche il luogo dove si annida un lavoro invisibile, il più delle volte al nero, insicuro e sottopagato. Il regista Daniele Segre l’ha raccontato con un film, Morire di lavoro, anche se – o forse proprio per questo – la pellicola ha incontrato ostacoli d’ogni sorta. Sarebbe bello se potessimo vedere in prima serata Rai i primi piani dei lavoratori e dei familiari dei morti in cantiere che Segre ha lasciato parlare davanti alla cinepresa. Ma al momento il film si può vedere solo in proiezioni pubbliche “autogestite” (per informazioni: moriredilavoro@gmail.com) oppure comprando il dvd (in vendita online a 15 euro sul sito www.danielesegre.it).

Quasi nessuno racconta il lavoro anche se è lì, sotto i nostri occhi o nelle nostre vite. Non sarà che c’è qualche pregiudizio culturale verso i lavoratori?
Ma questa mancanza di visibilità è stata costruita. E’ il risultato di una politica che risale perlomeno agli anni Ottanta. C’è stata una lenta, graduale ma inesorabile opera di distruzione dell’identità dei lavoratori e del lavoro. E’ il risultato di una grave sconfitta. Forse abbiamo trascurato l’effetto delle politiche del reaganismo e del thatcherismo. Certo, in questo periodo si parla molto di lavoro per via degli incidenti che causano morti e invalidi. Direi per fortuna, rispetto ad altri tempi oggi c’è più attenzione dell’opinione pubblica che scopre improvvisamente che sul lavoro si muore – cosa che è sempre successa. In questo periodo storico però se ne parla molto. Tuttavia non cambia la tendenza e di lavoro continuano a morire in Italia tre-quattro persone al giorno.

Oltre ai problemi materiali i lavoratori avvertono oggi la difficoltà di fare breccia nel simbolico, di accedere alla narrazione pubblica e alla rappresentazione dei media. Non è così?
Per quella che è la mia esperienza, ho avuto modo di conoscere il lavoro nell’edilizia attraverso il racconto dei lavoratori e di raccontarlo nel film. Quello che manca realisticamente e che accentua la solitudine di questi lavoratori è che non interessano a nessuno, se non nel momento in cui entrano in gioco nel luna park dell’orrore per fare share televisivo. Allora sì, tutti si occupano degli incidenti. Ma di quella che è la condizione quotidiana dei lavoratori, dei loro pensieri, delle loro preoccupazioni e delle loro tristezze non gliene frega niente a nessuno. Solo quando si accendono emozioni forti si mettono tutti a fare opere sugli incidenti. Ma così rischia di diventare una moda tra le altre. Non produce cultura. Io penso che ci debba essere invece un impegno quotidiano e costante ad avvicinare un mondo che paradossalmente ci sembra così lontano e, al tempo stesso, a educare i giovani a conoscere il lavoro.

O non se parla oppure quando se ne parla, sull’onda dell’ennesima morte, se ne parla con un eccesso di paternalismo. No?
Sono atti consolatori. Servono a lavarsi la coscienza e a fare in modo che il giorno dopo tutto continui come sempre. Qui bisogna riprendere un cammino che si è interrotto, ricominciare a zappare una vigna rimasta incolta e farla rifiorire. Bisogna ricostruire un’identità che è stata annientata da un grave imperdonabile abbandono dei lavoratori lasciati a loro stessi. Oggi il paese paga un prezzo per tutto questo. Senza i lavoratori non si va da nessuna parte. I loro problemi riguardano tutti. Rappresentano il progresso e il futuro di qualsiasi paese civile. Oltretutto l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. Un motivo in più per costruire condizioni di civiltà che oggi, purtoppo, non ci sono. Ce lo dicono, drammaticamente, i bollettini quotidiani di guerra sui posti di lavoro.

Il suo film, “Morire di lavoro”, ha avuto e continua ad avere problemi con la distribuzione…
Anche con la produzione. Sono praticamente solo in un’operazione molto difficile.

Perdipiù lei ha raccontato un settore particolare, quello dell’edilizia. Lì c’è la speculazione e le ricchezze facili. Non per chi ci lavora, però. Forse, data la situazione d’illegalità, è ancora più difficile entrare in un cantiere che in una fabbrica. O no?
Se ho scelto il settore edile è perché è uno dei più colpiti dall’infortunistica. Non volevo raccontare gli incidenti da un punto di vista generico, ma fermarmi a descrivere il lavoro nella sua quotidianità. L’edilizia offre una prospettiva interessante per un’analisi del modo in cui si lavora oggi in Italia. Ho chiesto la collaborazione e l’aiuto del sindacato di categoria della Cgil, la Fillea. Grazie a loro ho potuto contattare un numero consistente di lavoratori dei cantieri e di familiari di morti sul lavoro. Il film è un viaggio in quattro regioni italiane: Lombardia, Piemonte, Lazio e Campania. Ho iniziato a girare nel marzo 2007 e ho finito a novembre.

C’è più illegalità al Sud, come si dice, oppure anche nel civile Nord si lavora al nero?
L’illegalità è trasversale e riguarda il Sud come il Nord dell’Italia. Il fenomeno dei caporali e del reclutamento di personale al nero è numericamente significativo ovunque. L’unica differenza è che al Sud anche la popolazione italiana è coinvolta nel dramma dell’illegalità. I cantieri sono in mano alla criminalità organizzata.

La stragrande maggioranza dei lavoratori edili lavora al nero ed è sotto ricatto. Come li ha convinti a raccontare?
Se non avessi avuto la collaborazione della Cgil sarebbe stato difficile raccogliere le interviste. Devo sottolineare il coraggio civile dei familiari dei morti in cantiere. Ad ogni lavoratore che ho incontrato ho spiegato cosa volevo fare. Non ho obbligato nessuno a raccontare. Non mi interessava il nome delle imprese. Mi interessava la loro umanità e il racconto di come lavoravano. Il loro coraggio è un segno di fiducia nel futuro.

Il film è costruito quasi prevalentemente su primi piani e sul racconto in prima persona dei lavoratori. Una scelta?
E’ una tecnica già sperimentata in altri miei film. Ma anche una necessità funzionale a quel che volevo comunicare. Volevo documentare quelle storie attraverso i primi piani di uomini e donne che parlano ad altri uomini e donne nelle sale cinematografiche. E’ la tecnica più congeniale per stabilire una reciprocità tra schermo e pubblico. Ogni spettatore può fare il suo viaggio di scoperta in un mondo così vicino e così lontano come il lavoro. Vale anche per me. Prima, quando vedevo un cantiere, i miei occhi lo sorvolavano. Oggi lo vedo con occhi diversi.

Come è stato accolto il film?
L’anteprima è stata proiettata alla Camera dei deputati il 12 febbraio e l’11 marzo al parlamento europeo di Strasburgo. Però il momento della produzione è stato un’esperienza di solitudine. Ho chiesto la coproduzione con Raitre ma mi hanno risposto picche. Finito il film non l’ho ancora potuto far vedere a Raicinema. Aspetto ancora una telefonata. La mia richiesta è stata chiara. Non mi interessa che il film lo prenda la Rai per mandarlo a mezzanotte. Ho chiesto un’intera serata su Raiuno dedicata al lavoro con un tempo sufficiente a trasmettere il film e far intervenire in dibattito parti sociali ed esponenti politici. Che si parli di lavoro senza ipocrisie e senza strumentalizzare la sofferenza dei lavoratori ai fini dello spettacolo.

Cosa le ha risposto la Rai?
Non ho avuto nessun riscontro. Però io insisto. Rinnovo la richiesta. C’è bisogno di proposte culturali ed educative. Ho fatto il film per creare una maggiore consapevolezza sul lavoro, non per mettermi in scena. Aggiungo che lo stesso silenzio avuto dal servizio pubblico, l’ho ricevuto anche dall’Istituto Luce.

Le proiezioni autogestite però vanno bene. Non è così?
Arrivano tante richieste di proiezioni pubbliche. Il film sta girando in tutta Italia. Quando posso mi sposto e incontro il pubblico.

Il guaio è che la televisione pubblica, in nome dell’audience, rincorre il presunto gusto del pubblico e cade sempre di più verso il basso. Non è ora di dire: basta con i reality e i telequiz?
Il servizio pubblico deve ricominciare a fare il servizio pubblico con serietà e impegno. Deve concorrere a far maturare e crescere il paese. Non credo che eliminando i quiz si migliori. Bisogna però stabilire delle priorità. Ci sono temi sui quali si deve riflettere, a partire dal lavoro. Come cittadino e come regista pretenderei che il servizio pubblico fosse consapevolmente responsabile del destino del proprio paese. Altrimenti non è servizio pubblico e allora se ne devono andare. E in fretta.