Clara Sereni / dal libro “Taccuino di un ultimista”

“l'Unità” ha già presentato il film di Daniele Segre che la Mostra di Venezia ha offerto in questi giorni ai suoi spettatori. Ma la forza metaforica del film, unita ad alcuni piccoli episodi verificatisi attorno alla sua proiezione al Lido, credo giustifichino una riflessione ulteriore.
Per chi non lo ricordasse, il film di cui sto parlando ha per titolo Paréven furmìghi (Sembravano formiche) e racconta la costruzione di un cinema a Cavriago, provincia di Reggio Emilia: l'impegno e la fatica di tanti per dare a un piccolo paese la possibilità di partecipare a un mito – il cinema – che era insieme ragione fondativa dell'impresa e pedagogica possibilità di aprire una finestra sul mondo, il mondo grande da conoscere e da cambiare.
Le interviste che il film raccoglie dicono di come l'iniziativa, inizialmente promossa da un nucleo di militanti comunisti, coinvolgesse via via la comunità intera, nelle sue diverse componenti politiche, sociali e territoriali: qualcosa che il vecchio Pci sapeva fare molto bene, costruendo in una miriade di situazioni un ponte fra la grande utopia e un fare concreto, comprensibile e utile, in cui ciascuno poteva trovare un proprio ruolo e una propria funzione. Era questo ponte che definiva l'identità del militante, è su questo ponte che è transitato un attivismo di cui le attuali Feste de “l'Unità” sono un ricordo assai pallido: non solo per la standardizzazione alla fine noiosa dell'impegno concreto, ma perché nessuno sa più dove porti quel ponte.
Non è questione di organizzazione, non è questione di segretario forte o debole: è questione di utopia, è questione di identità. Le riforme istituzionali, il partito nuovo sono certo pre-condizioni indispensabili, i piloni di sostegno a quel ponte: ma se non riusciamo a dirci qual è l'obiettivo, l'utopia necessaria verso cui stiamo muovendo, non stupiamoci poi se non c'è più passione, se la militanza va scomparendo.
Il breve dibattito succeduto alla proiezione di Paréven furmìghi non ha avuto il beneficio di un microfono funzionante, cosicché a chi era in sala è stato possibile ascoltare le dichiarazioni del regista, alto su una pedana e dotato di voce sufficientemente stentorea, ma sono rimasti incomprensibili gli interventi del pubblico. Così anche Segre, sempre attento a non sovrapporsi ai suoi protagonisti, si è trovato in una posizione inevitabilmente “televisiva”, leader e portavoce suo malgrado proprio di quelle persone e di quella comunità cui era riuscito a ridare la parola. La sua capacità di attivare partecipazione si è scontrata insomma con un piccolo incidente tecnico che ha sconvolto i ruoli.
Andando via, i cittadini di Cavriago presenti in gran numero alla proiezione hanno salutato Segre e lo hanno ringraziato per il lavoro fatto insieme, e lì è apparsa chiara la possibilità di chiudere, anzi di cancellare l'inconveniente organizzativo. Perché in quei saluti e in quei ringraziamenti non c'era subalternità “televisiva”, ma invece il senso di un percorso compiuto insieme, ciascuno con la propria dignità, dentro un progetto che non finisce con il film, né tanto meno con la sua proiezione a Venezia. Non solo perché i cavriaghesi hanno dato la propria disponibilità ad accompagnare il “prodotto” là dove sarà proiettato, ma perché attorno al film si è creato e vive un tessuto complesso fatto di vecchi e di giovani, di esperienza e di corsi di formazione, di Italia e Francia collegate da un progetto europeo, insomma di un passato e di un futuro in cui tanti trovano un senso al proprio fare, dentro una cornice che resta malgrado tutto mitica, il cinema. Il cinema di ieri e quello di oggi, Paisà e Paréven furmìghi: linguaggi diversi per una passione che non scolorisce.
Mi piacerebbe che in autunno, all'assemblea congressuale del Pds, utopia e voglia di fare, responsabilità di progettare e necessità di governare fossero temi tutti all'ordine del giorno con pari dignità: come al Lido, e non solo dentro un film. Mi piacerebbe trovare anche in quell'assemblea la consapevolezza di voler costruire un ponte capace di ricollocarci dentro un'emozione, un'utopia, un mito. Certo non basterà che funzionino i microfoni per ridare la parola a chi non ce l'ha, come non servirà chiudere gli occhi per sognare un'utopia nuova, ma qualcosa, tutte e tutti insieme, mi piacerebbe che sapessimo fare. Con i linguaggi di ieri e di oggi, con i problemi vecchi e nuovi, con una passione che non scolorisca.