Nicola Mirenzi/DONNEUROPA

“Nonna, ma davvero sei comunista?”. Si apre così il film che Daniele Segre dedica alla politica, giornalista e fondatrice del manifesto, raccontandone la storia e l’identità, così forte da valere l’insubordinazione nei confronti del partito

Qualcuno era comunista. E qualcun altro lo è anche rimasto. Luciana Castellina è una di questi pochi resistenti, come recita il titolo del cofanetto che esce oggi per Fandango: Luciana Castellina, comunista (contiene un film ritratto di Daniele Segre e un libro in cui sono raccolti degli scritti del biennio 1970-72 sulla Fiat, con interventi di Maurizio Landini e Giorgio Airaudo, 20 euro). Ma il comunismo di questa politica, giornalista, fondatrice del manifesto, è tutt’altro che dogmatico e ortodosso. Non è fatto né di dittatura del proletariato, né di prese del palazzo d’inverno. È piuttosto la curiosità della vita che ha raccontato nel suo libro di memorie, La scoperta del mondo (nottetempo), e che le impedisce di rassegnarsi alla realtà delle cose così come sono, nutrendo un desiderio politico che sconfina nell’utopia, quello di modificare l’esistente sino a coniugare – finalmente – libertà e uguaglianza.

Suo nipote però si sorprende della definizione e le chiede conferma: “Nonna, ma davvero sei comunista?”. Si apre così il film che Daniele Segre le dedica, facendole raccontare la sua vita, attraverso i ricordi, le fotografie custodite nei vecchi raccoglitori, ritraendola nella sua casa all’Argentario e in quella di Roma. Negli scatti si vede la figlia di Benito Mussolini, Annamaria, sua compagna di classe alle scuole elementari che – racconta Castellina – commentava i bollettini radiofonici ufficiali in classe ripetendo i discorsi che ascoltava in casa da suo padre, con tanto di cattivi giudizi sul re, alcuni ministri, alcuni alti gerarchi fascisti.

Lì Castellina intuisce che la politica ha più di una versione ufficiale, nonostante che del regime in cui viveva non avesse ancora alcuna cognizione. L’antifascismo era appannaggio di circoli clandestini, di prigionieri politici, tenuti lontani dalla vita quotidiana delle persone e in definitiva irrilevanti. La prima volta che si accorge che qualcosa non va è il 25 luglio 1943 – il giorno in cui Mussolini viene sfiduciato dal Gran consiglio del fascismo – , quando è costretta a interrompere una partita di tennis con la figlia del duce a Riccione perché le guardie chiamano trafelate Annamaria intimandole di seguirle immediatamente.

Castellina diventa comunista alla fine della guerra e scopre di essere borghese. I proletari non hanno da perdere che le loro catene, le spiegano, mentre lei ha da perdere molte altre cose. Ciò la ferisce moltissimo. Perché sua madre quando doveva designare una persona convenzionale e conformista la definiva, appunto, “borghese”. E poi perché arrivato il momento di un viaggio in Unione Sovietica, la più ambita delle destinazioni, viene scartata per far posto a una compagna operaia. “Giustamente – osserva – però non posso negare che mi fece male”.

Castellina viaggia moltissimo, visita Parigi, Praga, la Jugoslavia, mezza Europa. E lavora, si spende per il partito, quasi per lavarsi dal senso di colpa di appartenere alla classe sociale sbagliata, nemica. Conosce le borgate, capisce cosa significa nascere nel basso della scala sociale. E si entusiasma quando percepisce che le persone povere – grazie alla politica – possono smettere di essere suddite e divenire soggetti della storia.

La ripete spesso, questa storia dell’identità, Luciana Castellina. Se si vuole essere protagonisti, bisogna sapere chi si è. Non ubbidire, farsi valere. Sino ad arrivare all’insubordinazione nei confronti del partito comunista, fondare insieme a Pintor, Rossanda, Parlato, Magris una rivista e poi un quotidiano – il manifesto – che ne criticava la linea politica e venire radiati da quella che era stata una casa e una famiglia.

Perfino di questo ha nostalgia oggi, Castellina, cioè di quella concezione della politica in cui le idee contavano sino al punto di venire punite. Mentre ora anche le critiche più dure sono accettate, dice, “perché in realtà non contano nulla: vale solo l’opinione del leader espressa in televisione”.

Come per il film di Pietro Ingrao, Non mi avete convinto, anche questo ritratto video girato da Segre vale quasi come un messaggio nella bottiglia: una testimonianza di un mondo scomparso, di un pensiero sconfitto, che rimane impigliato nel mito di una classe operaia che non c’è più e nemmeno si sforza di nominare la condizione dei soggetti esclusi dell’oggi, eppure coltiva la speranza di fecondare qualcos’altro, passare il testimone, per quell’inguaribile ottimismo della volontà che hanno i comunisti. Persone di fede.