Maria Teresa Soldani – catalogo INVIDEO 2010

Lisetta Carmi, la fotografa

Ricordo molto bene quando Daniele Segre mi mostrò per la prima volta il catalogo della mostra fotografica di Lisetta Carmi a Ravenna, dove era recentemente stato. Quelle fotografie mi colpirono fin dal primo istante riportandomi “con gli occhi” agli scatti di Henri Cartier-Bresson, alla stessa urgenza di esprimere in un attimo una visione universale e totale dell’umanità. Israele, il Venezuela, l’Afghanistan, l’Irlanda del Nord negli anni Sessanta e Settanta, un mondo (s)perduto dopo le guerre mondiali che stava cambiando a una velocità eccezionale, un mondo di cui Lisetta riusciva a cogliere l’essenza, le contraddizioni, la crudeltà ma anche la dolcezza. E poi il ritratto di Ezra Pound a Sant’Ambrogio di Rapallo, un artista immortalato nel silenzio della sua completa solitudine, e la sequenza del parto all’ospedale genovese di Galliera, un atto naturale e al tempo stesso doloroso e coraggioso. Come naturale, dolorosa e coraggiosa vedo tutta l’opera fotografica di Lisetta Carmi: «l’autoritarismo e l’erotismo» del cimitero monumentale di Staglieno; la durezza e la forza dei portuali di Genova; la tenerezza dei ritratti dei “suoi” travestiti, fotografati con rispetto e affetto per sei anni; la grandezza e il dolore degli scatti a Pound; gli occhi limpidi dei bambini di Maracaibo durante le razzie nelle discariche e i giochi in strada, in mezzo alla povertà e alla ferocia del Sudamerica.
L’intenso e irrepetibile viaggio del film è iniziato con una lettera che Lisetta scrisse a Daniele per invitarlo a Cisternino e raccontargli la sua vita (o meglio le sue «cinque vite» come ci spiegò in seguito). Arrivare in Puglia per le riprese ha significato entrare in un’altra dimensione, un luogo ancestrale e sacro: il bianco lucente dei trulli, l’azzurro inteso del cielo del Sud, il vento che incessantemente rompeva il silenzio lungo le strade punteggiate da splendidi ulivi secolari con la propria età, forma, dimensione che richiamavano le foto di Lisetta, ciascuna con un tempo, uno spazio, un’anima. Fin da subito gli ulivi e il vento hanno offerto delle suggestioni importanti per il film che ci hanno accompagnato per tutta la lavorazione, ed è stato proprio il vento il primo suono su cui ho lavorato per la colonna sonora. È rimasto nelle mie orecchie come il bellissimo 'Preludio' di J. S. Bach che ha suonato Lisetta al pianoforte, e che all’interno del film ho poi trasformato in una variazione per chitarra.
La storia di Lisetta Carmi non è solo la vicenda di una delle più importanti fotografe e artiste italiane, ma è la storia di un’anima che ha attraversato la Storia del Novecento. Lisetta si è svelata alla videocamera e ha raccontato passo per passo il suo cammino, stimolata dall’instancabile curiosità di Segre: come in un film scorrevano i ricordi d’infanzia e le tradizioni ebraiche, le lezioni di pianoforte e gli anni Venti, le leggi razziali e la fuga in Svizzera, le prime fotografie, la Genova bohémienne di Lele Luzzati, Gino Paoli e del fratello Eugenio, il boom e gli anni Sessanta, il mondo dei «bassi» raccontato anche da Fabrizio De Andrè, gli anni Settanta e i viaggi in Oriente. “Sentivamo” gli odori dei biscotti fatti in casa e dell’incenso, il tanfo dei vicoli di Genova e l’aroma delle spezie indiane, così come il suono delle navi del porto, dei martelletti del pianoforte nel rifugio svizzero e delle acque che scorrevano nei corsi della Sicilia. Durante le riprese scopriamo anche tutto il suo ricchissimo archivio, che ha raccontato foto per foto al tavolo con Segre e che ci ha emozionato e sorpreso ad ogni istante.
Al ritorno a Torino la fase del montaggio è stata altrettanto intensa – come è solito essere nel modus operandi di Segre – un’attenta e articolata scrittura audiovisiva ispirata dal suono del vento e dal “luogo mentale” creato nelle sequenze di Lisetta nell’uliveto. La scrittura della colonna sonora, come e con il montaggio, è stata una continua scrittura e riscrittura, giorno e notte. Siamo arrivati al montato finale quasi senza prendere fiato, completamente immersi nel mondo fotografico di Lisetta Carmi e catturati dal suo straordinario personaggio.

Luciano Lischi, l’editore

'Luciano Lischi, editore' è stato il primo e per ora unico film che Daniele Segre ha girato ricoprendo tutti i ruoli realizzativi: produttore, autore, operatore, fonico, montatore e regista. Ha deciso di lavorare così, in compagnia esclusivamente di 'Luciano', immersi nella quiete della casa pisana da cui il “piccolo grande” editore ha svelato i segreti del mondo del libro: come viene concepito dall’autore e dall’editore, come nasce in tipografia e come cresce con la casa editrice. A fare da sfondo al palazzo della Nistri-Lischi in Piazza del Castelletto c’è la città di Pisa, sempre presente e – nella collana 'Cultura e storia pisana' diretta da Emilio Tolaini – in primissimo piano, con la sua geografia, i suoi costumi, gli antichi fasti e la «solitudine di un impero».
Il percorso di scoperta di Segre ha richiesto più di un viaggio a Pisa, o meglio più tappe per conoscere l’uomo e l’editore e più passaggi per riuscire a “entrare da ogni porta” nella casa editrice: quella attraverso cui Lischi bambino guardava fondere il piombo dei caratteri usati in una grande brace fumante; quella della tipografia dove toccava le rifiniture del suo primo romanzo, 'I passeri' di Giuseppe Dessì; quella del suo ufficio da cui usciva a notte fonda immerso nei pensieri. Altre porte si aprono attraverso quelle della Nistri-Lischi: il salotto di Niccolò Gallo a Roma con Giuseppe Berto e Guglielmo Petroni, il salone del libro di Francoforte con Valentino Bompiani, l’atrio dell’Hotel Nettuno di Pisa con Mauro Mancini, come la prua della barca in cui la famiglia e gli “amici di mare” andavano alla scoperta di nuovi porticcioli e attracchi per 'Il Tagliamare'.
Il film racconta il lavoro di una vita condotto sempre con estrema passione e rigore: leggere, scegliere, curare un testo dalla grafica al carattere fino alla carta, stamparlo, distribuirlo, promuoverlo, scommetterci ancora una volta credendo in un progetto editoriale che va oltre un singolo volume (in anni in cui l’Italia era un paese all’avanguardia in Europa e nel mondo per l’editoria). “S’addipana” un fil rouge in cui dalla casa editrice Nistri, che alla fine del Settecento aveva pubblicato 'Le mie prigioni' di Silvio Pellico e il primo commento in volgare della 'Divina Commedia', si passa per l’acquisizione da parte del nonno Vincenzo, l’accorpamento con le tipografie Lischi e il cambio del nome nello “scioglilingua” Nistri-Lischi, arrivando infine all’esperienza diretta di Luciano e alle nuove scommesse della casa editrice, con la voglia di fare «qualcosa di più e di migliore». Da questa intenzione nascono, tra le altre, la prima collana di narrativa con Dessì, Cassola e Bassani e le sofisticate collane di saggistica con illustri personaggi della cultura italiana come Francesco Flora, Lanfranco Caretti, Sebastiano Timpanaro. L’editore: un mestiere in cui carta, libri, timbri, macchine tipografiche, rulli, caratteri, torchi, clichés, odori e rumori diventano “oggetti animati”, indimenticabili, stampati nelle narici e nei timpani del Lischi: ogni volta che li percepisce si sente «a casa».
Per me, pisana come Luciano Lischi, è stato emozionante vedere in che modo nel montaggio prendeva progressivamente forma una storia che mi apparteneva da cittadina e lettrice dei libri Nistri-Lischi, quei grandi volumi di colore chiaro che mio padre sfilava dalla libreria per parlarmi della storia della città. Quel gesto così “familiare” – in senso stretto – nel film diviene un gesto confidenziale, amorevole e amoroso, reiterato con cura e attenzione dal Lischi che sfoglia le pagine in cerca di un passaggio che non ricorda più a memoria, o di una madeleine che faccia riaffiorare una pagina di passato. È stato molto stimolante poter raccontare questa “piccola grande” storia in musica, cercando con la chitarra di creare una dimensione sonora sospesa, fatta di corde tese, tremoli, echi e “grani di polvere” da soffiare via proprio dai suoi libri.

Morando Morandini, il critico

Daniele Segre e Morando Morandini hanno un rapporto di amicizia che dura da molti anni, in particolare da quando diressero insieme ad Antonio Costa il Bellaria Film Festival, tra il 2002 e il 2005. Il regista la ricorda come un’avventura di vita e cinema speciale, che indubbiamente ha segnato le loro vite e il loro sguardo sul cinema con una profonda comunione di idee che parte dal riconoscere al «cinema della realtà» un ruolo di cruciale importanza.
Morandini è uno dei critici cinematografici più noti e distinti del panorama nazionale, un critico nell’accezione piena dell’etimologia cioè di “colui che distingue e giudica” (dal greco κρίνω: “separo, scelgo, giudico, decido”). E così i suoi giudizi sui film, che dagli anni Cinquanta dà come giornalista professionista, sono positivi o negativi ma sempre e comunque motivati da un’analisi esigente e appassionata sul testo filmico e da un’idea alta di cinema come medium che ha la capacità di guardare quello che nella realtà non si sa vedere. Morandini è anche il celebre Dizionario dei Film, da lui ideato per la Zanichelli, che dal 1998 scheda e descrive, assegnando loro da una a cinque stelline, migliaia di film usciti in sala dal 1902 (e al suo interno, va sottolineato, le “5 stelline” sono assegnate soltanto a 69 film su 23.500 complessivi). Un lavoro di critica che nella preparazione annuale del Dizionario diventa anche un lavoro “familiare” dal momento che viene compilato oggi con la figlia Luisa e, prima ancora, con la moglie Laura. È proprio alla moglie che vanno i ricordi più intensi di Morandini che a Levanto, la città dove si sono conosciuti e innamorati, ha fondato un festival del cinema dedicato a lei, il Laura Film Festival.
In due momenti diversi della sua vita – a Levanto (La Spezia) nel 2004 e a Milano nel 2010 – Morandini si racconta davanti alla videocamera dell’amico Daniele, parlando della propria timidezza, dell’infanzia, della balbuzie, dell’amicizia e delle donne «che lo hanno educato». Naturalmente si racconta anche come giornalista, direttore, attore – in 'Prima della rivoluzione' (1964) di Bernardo Bertolucci e in 'Remake' di Ansano Giannarelli (1987) dove interpreta il ruolo di se stesso durante il Festival di Locarno – nonché critico «politeista» con un amore per gli autori e i generi a 360 gradi. Tra uno scambio di battute e l’altro, Morandini “gioca” con le lettere dell’alfabeto, i decenni, i film e le citazioni, seduto di fronte alla sua inseparabile macchina da scrivere con cui ancora oggi realizza ogni articolo e recensione firmati a suo nome. Che sia nel giardino di Levanto o nello studio di Milano, s’innesca un gioco intellettuale tra i due amici – un critico (davanti alla videocamera) e un regista (dietro alla videocamera) – che diventa nel film un 'alfabeto Morandini', nel segno dei passati scambi epistolari di poesie in rima e buffe cartoline. Con lo stesso spirito-guida viene fuori 'Je m’appelle Morando', titolo che riprende la celebre battuta di Garance in 'Les enfants du paradis' (1945), capolavoro della storia del cinema di Marcel Carné dal sapore romantico, poetico, pessimista, passionale, decadente, citato tra i “film della vita” di Morandini.
All’interno di questa nuova avventura cinematografica seguo ancora una volta come assistente la fase del montaggio in cui ogni frase, richiamo e successione d’inquadratura mi portano dentro a una pagina di storia del cinema che resto ad ascoltare in silenzio, quasi fossi di nuovo seduta tra i banchi dell’università. La fotografia è per la prima volta affidata al giovane talento di Emanuele, il figlio di Segre, che a fianco del padre compie il proprio battesimo nel mondo del cinema. Segre invece, come nella maggior parte degli ultimi film, ricopre i suoi ruoli naturali di autore, regista e montatore, oltre a quello di (auto)produttore.
Il prendersi dei rischi è ciò che certamente lega in maniera intrinseca e profonda i due amici: il critico e il regista “di frontiera” che hanno il coraggio di portare avanti le loro posizioni e difendere le proprie scelte in nome di un cinema che mette al primo posto «il volto come specchio dell’anima».