Rocco Moliterni / Il Manifesto

Detonatore innescato nel malessere giovanile, il rock torinese vive tra scantinati e birrerie, sussulto sotterraneo che scuote i nervi della metropoli, si nutre di radio private e concerti al Palasport. Ingenuo, violento, demenziale, germina band come i Blue Vomit o gli Overdrive, pezzi come “Epatite virale” o “Non mi alzo in pulmann”. Rock periferico, povero di spazio e di soldi, lontano dai circuiti che contano, sogna case discografiche e sale di incisione e intanto si fa le ossa nei retrobottega di macelleria.
Ad esplorarne per la prima volta i territori è Daniele Segre con un'inchiesta televisiva in due puntate, in onda martedì scorso e il prossimo sulla terza rete regionale, alle 19,30. Geografia umana più che musicale, “Rock” prosegue l'indagine sulla condizione metropolitana avviata da Segre in “Mercati generali”, “Ragazzi di stadio” e “Il ciocco è relativo”. Violenze allo stadio, tossicodipendenze, giubbotti neri e ribellione punk, facce diverse di una stessa marginalità giovanile che affiora attraverso volti, gesti, discussioni. Un modo di fare inchiesta riconoscibile per le sue voci fuori campo, la sua sobrietà, il suo rinunciare ad ogni commento, il suo lasciare la parola ai protagonisti dei fenomeni che si indagano. A costituirne l'ossatura interviste (Segre utilizza quasi tutte le categorie “intervistologiche” dell'ultimo numero di Scena realizzate con una straordinaria capacità di far parlare, sciogliere gli intervistati, magari costruendo una rete fittizia di gesti quotidiani.

Ad aprire la prima parte di Rock, capelli lunghi e stanza tappezzata di Jimi Hendrix, è Libero, figlio di operai, ragazzo di periferia, “vissuto senza poter girare il mondo”.

– Che cos'è il rock?

“è tutto. La mia forza l'ho sempre trovata nella musica. La musica ti fa sentire vivi”

Libero racconta di quando, tanti anni fa, scoprì i Cream, legge una sua poesia omaggio a Jimi Hendrix, “iI primo che ha mandato a fare in culo con la chitarra la polizia americana” mette su dischi.
Giubbotti neri, tute mimetiche, berretti rossi e frasi smozzicate, in birreria Libero ed altri discutono di rock, rimpiangono mitici concerti cui si andava “per far casino” o per sentire musica o per sentirsi insieme. Qualcuno grida “Il rock è politica” e qualcun altro “La politica non c'entra un cazzo, non esiste più”. Tra quarti di bue e cassette di uova, in un fassbinderiano retrobottega di macelleria, i Blue Vomit provano il loro punk sgangherato di “Non mi alzo in pulmann”.

Seconda parte. Il disc jockey di una radio privata presenta i Blind Alley, band new wave. “Che musica fate?” “Rock torinese”. “Non ci sono spazi — aggiunge tra un ghigno e l'altro uno della band — non possiamo provare, non abbiamo soldi per gli strumenti.”
Il pezzo lo fanno in Inglese, si chiama “Tv”. “Mi sono innamorato della mia tv — dice — lei mi dà quello di cui ho bisogno, mi dà ragazze tanto belle che sembrano più che vere, non così per strada o in discoteca, per questo resto a casa a guardare la tv”.
Intervista in un pullman in demolizione ai Blue Vomit: “Il mio modello di essere un punk?” Essere simpatico e truffare le case discografiche”. “Voglio distruggere tutto quello che c'è intorno”. “Non sono d'accordo voglio solo divertirmi, io”. “Voglio il successo, la ricchezza, sono molto veniale”, “La politica è una merda, non me ne frega niente”.
Al music people è in corso il primo festival regionale del rock: “Torino — dice un disc jockey mentre sul palco si alternano le band — è una città isolata, tutto nasce a Milano. Ma è una città dura, ha bisogno di sfogo. Il rock è una bomba che può esplodere e lasciare il segno”.

A concludere sono le immagini e gli amplificatori dai watt a molti zeri degli Overdrive in Rocker:
“Sono un rocker, porto il giubbotto nero, voglio solo suonare un po' di buona musica”.