Castalda Musacchio / Liberazione

Ieri erano a Roma assiepati davanti all'Agip. Un caldo soffocante e poca ombra. Volti distratti, a tratti disarmati. Si può intuire, guardando negli occhi gli operai della Nuova Scaini di Villacidro (Cagliari), quali possano essere le motivazioni che hanno spinto un regista come Daniele Segre a seguire da vicino questi sguardi. Si tratta di uomini come tanti che si incontrano per la strada, al bar; ma dietro quei volti, ieri, c'erano speranza e rassegnazione.
Cosa deve aver mosso Daniele, torinese, regista di «Manila Paloma Bianca» e di altri importanti documentari sulla realtà sociale italiana, lo si può solo intuire incrociando quegli stessi sguardi. Allora si può anche comprendere perché una macchina da presa possa essere un mezzo al servizio degli altri e perché c'è anche bisogno, anzi soprattutto, di un cinema “di solidarietà” impegnato nella narrazione di fatti di vita.
Due documentari di Segre, girati rispettivamente nel 1993 e nel 1994, rimangono pietre miliari del “cinema militante” che si è fatto in Italia negli anni '90. Il primo, Crotone,Italia documentava l'occupazione dell'Enichem. Il secondo Dinamite entrava nella terra, nel senso letterale del termine, insieme ai minatori del Sulcis, in Sardegna.
Da venerdì scorso Daniele è a Villacidro, un paesino di 16mila abitanti in provincia di Cagliari, a girare una nuova storia, ancora senza titolo, dedicata a loro: gli operai della Nuova Scaini, fabbrica di batterie per auto, in liquidazione. E' la storia di 154 uomini, quasi tutti padri di famiglia, che vivono ora sulla loro pelle la crisi disperata di chi non ha un lavoro ed è alla ricerca di una speranza.

Daniele, cosa ti ha spinto di nuovo in Sardegna?

L’immagine di un uomo mascherato come un tuareg ripresa per caso da un telegiornale. Si trattava di un operaio della Nuova Scaini appunto. Quella immagine aveva per me un che di blasfemo. Nessuno, soprattutto un lavoratore, si dovrebbe mascherare per far valere un diritto. Quell'immagine, quegli occhi nascosti da un velo, esasperati, forse rancorosi, mi hanno spinto a ritornare in Sardegna. Ho cercato informazioni sui giornali di quella vicenda particolare che riguardava la fabbrica di Villacidro ma non ne ho trovate. Allora sono partito con quell'immagine negli occhi. Ho capito solo che dovevo riportare agli altri l'incontro con quella solitudine. Quella profonda e grande solitudine verso cui non si può non andare incontro. Il cinema deve ricordare a tutti che si deve riprendere contatto con la realtà.
Hai seguito una sceneggiatura, un filo di improvvisazione o cosa?

Come si può porre questa domanda! La sceneggiatura seguita non può essere altro che dettata dai miei sentimenti, dalle mie emozioni. Poi la sceneggiatura è la vita. La vita di questi operai che sono da più di un anno in quella fabbrica occupata a lottare per la loro dignità. Dai primi di luglio combattono solo per un motivo: quello della ricerca di una speranza perduta.
Quale è il progetto alla base di questa tua ricerca cinematografica?

Il progetto che è alla base di questa sceneggiatura è aiutare gli altri a riprendere contatto con la realtà.
Il film l'ho terminato ieri a Roma. La storia credo finirà lì. Ma per un regista vivere dall'interno questo dramma, l'esperienza della perdita di un lavoro, la chiusura di una fabbrica, il dramma che si cela dietro i volti di questi uomini e queste famiglie che stanno male, non può che essere un'esperienza da raccontare per stimolare il riflettere, il capire, il comprendere quello che gli altri fanno, come gli altri vivono. Allora non c'è altro da fare che riprendere.
Quali sono le immagini che ti sono più care, quelle che ti hanno più colpito nel girare le scene?

Ho dormito con gli operai su bombole di propano, una sostanza esplosiva, per capire quel gesto estremo che ha spinto sei di loro ad incatenarsi a quelle bombole infernali. Ho dormito con loro insieme al mio operatore Franco Robust. Ho scelto di lavorare e di dormire lì per capire, ma non solo, soprattutto per farli sentire meno soli. In questo senso una macchina da ripresa aiuta la solidarietà. Tanti di loro sono padri di famiglia, in famiglie in cui en tra un solo reddito, il loro. Si può comprendere perché la voce spesso inascoltata debba essere ripresa, filmata, documentata, perché è la voce di chi spesso non ha voce.
Cosa ti ha colpito di più in quella fabbrica, con quegli uomini?

Questi macchinari che giacevano inermi. Spenti. E continuavo a pensare “basta schiacciare un bottone per farli andare di nuovo, per farli ripartire”. Basta solo schiacciare un bottone per ridare voce alla speranza. E' a questo gesto atteso, in fondo insignificante, complesso e semplice allo stesso tempo, a cui ho pensato per tutto il tempo. Basta solo schiacciare un bottone perché i salari riprendano ad arrivare.
Così, guardare quei macchinari spenti era una stretta al cuore. E' una decisione molto grave quella di chiudere una fabbrica. Così tanto grave che, forse, non si pensa mai a come un luogo all'apparenza brutto possa invece essere così pieno di vita, di storie, di speranza.
E' questo, credo, che il cinema deve consegnare: un appello alla solidarietà per quanti soffrono a causa di un'ingiustizia sociale, di un danno causato da un'ingiustizia.