Alberto Crespi

Un film che non avrei mai voluto recensire
Crespi, una delle firme più prestigiose de L’Unità, scrive: “Un film che scava nelle viscere e tocca le corde più sommerse dell’emozione”

di Alberto Crespi
Daniele Segre ha detto più volte che Via Due Macelli, Italia. Sinistra senza Unità è il suo film più “brutto” e che non avrebbe mai voluto girare. Da critico dell’Unità, posso tranquillamente aggiungere che non avrei mai voluto recensirlo. Di più: parlarne in termini oggettivi, asettici, è assolutamente impossibile. Per tutti noi che all’Unità abbiamo vissuto e lavorato, il film scava nelle viscere e tocca le corde più sommerse dell’emozione. Eppure, giunti alla sesta puntata – con D’Alema in redazione, e con la notizia irrevocabile della cessazione delle pubblicazioni: il climax drammatico del film – dobbiamo dire che questo film andava fatto. Non solo perché la sua presenza a Venezia – per la quale non finiremo mai di ringraziare Paolo Baratta, presidente della Biennale, e Alberto Barbera, direttore della Mostra – dà alla nostra vertenza una visibilità che altrimenti avrebbe faticato ad ottenere; ma perché “Via Due Macelli, Italia” va, per così dire, al di là del proprio titolo.
Lo abbiamo detto più volte, “dentro” il film e dopo, ma è sempre bene ripeterlo: qui non è in ballo il destino di un giornale la cui redazione si situava (si situa) in Via Due Macelli, nel centro di Roma, dove già qualche anno prima era morto Paese Sera (due macelli, mamma mia…). Da qui si deve ripartire per una discussione che investe il destino della sinistra in un paese dell’Occidente chiamato Italia. Nel film lo si sente dire molto spesso, è una sorta di doppio tormentone. Primo punto: è inconcepibile che la ristrutturazione (necessaria, chi lo mette in dubbio?) di un giornale come l’Unità non sia passata attraverso una trattativa sindacale regolare, limpida, trasparente. Tale trattativa è partita solo in questi giorni, dopo che per mesi i dipendenti del giornale sono stati presi in giro a suon di false promesse e di assordanti silenzi. Secondo punto: la cosa che più ci ha fatto imbestialire è il non aver capito (o l’aver capito troppo tardi), da parte della dirigenza Ds, che la sparizione del giornale dalle edicole sarebbe stata un harakiri politico, un danno d’immagine incommensurabile alla vigilia di una campagna elettorale difficilissima.
Il film di Segre pone questi problemi. E li pone con la semplicissima forza della cronaca. Vedendo lui e il suo operatore Franco Robust in azione, in quei giorni, molti di noi hanno detto: guàrdali, si muovono come cronisti. Detto da un giornalista, è il massimo dei complimenti. La sesta puntata, imperniata sull’assemblea con D’Alema, era da questo punto di vista esemplare. In parallelo all'”azione”, per così dire, c’è poi il tempo della riflessione e della memoria. Sicuramente, nelle prossime puntate, gli interventi di Alfredo Reichlin e di Pietro Ingrao (due ex direttori ancora molto amati in redazione) terranno vive queste due anime del film: il primo è venuto a trovarci il giorno stesso della chiusura e la sua testimonianza avviene in diretta, il secondo riflette sulla storia del giornale (e del Pci) dalla sua casa di campagna, “fuori” dagli eventi ma magicamente “dentro” il nostro tempo, la nostra attualità, la nostra storia.
Via Due Macelli, Italia è un film essenziale per capire l’Italia del 2000. Si parla tanto di crisi del cinema italiano. Le soluzioni sono una, nessuna, centomila. Ma se ci fossero in giro più “cronisti” come Segre avremmo qualche problema in meno.
(6 settembre)