Maria Teresa Soldani/Acting Out magazine/ http://www.actingoutmag.com

Maria Teresa Soldani. All’inizio della sua carriera quali situazioni l’hanno portata a raccontare prima con la fotografia e poi col cinema la realtà urbana degli anni Settanta?
Daniele Segre. Il mio lavoro è iniziato con la macchina fotografica con cui ho raccontato la realtà sociale di Torino, in particolare le occupazioni delle piccole fabbriche. Da lì ho avuto modo di documentare la città: facevo lunghe camminate e documentavo vari luoghi. Il rapporto però più importante che in quegli anni ho costruito è stato quello con le lotte delle piccole fabbriche. Parallelamente mi sono avvicinato al mondo del tifo calcistico, in particolare dei tifosi, prima della Juventus e poi del Torino: verso il ’76 -’77 mi sono imbattuto in una scritta su un muro “Il potere dev’essere bianconero” e da lì mi è venuta voglia di andare a conoscere quella realtà. Intanto, nel 1975 ho fatto il mio primo film sulla tossicodipendenza, Perchè droga?, girato interamente a Mirafiori Sud. Allora l’Italia non era più un mercato di passaggio ma era diventato un luogo di smercio di droga e ho così analizzato la realtà di un quartiere-dormitorio come Mirafiori Sud, che praticamente avvolge la FIAT Mirafiori. Poi l’incontro con quella scritta mi ha stimolato a sviluppare un’indagine più approfondita sia fotografica sia con un registratore, in primis con i Fighters della Juventus, da cui è nata l’idea di fare il cortometraggio Il potere dev’essere bianconero, che mi ha permesso poi di fare il lavoro più lungo Ragazzi di stadio. Tutte le fotografie che ho fatto in quegli anni sul mondo delle tifoserie sono diventate un libro omonimo Ragazzi di stadio (Mazzotta, 1980), che raccoglie anche le interviste, e una mostra fotografica. Ho continuato a fare fotografie fino a metà degli anni Ottanta quando, nel 1984, ho girato Vite di ballatoio: anche col mondo dei travestiti il mio approccio è stato prima fotografico e poi cinematografico.

MTS. Qual era la situazione politica e sociale di Torino negli anni Settanta quando ha iniziato il suo percorso di autore e regista?
DS. La realtà che ho preso in considerazione era quella delle piccole fabbriche e dei quartieri dormitorio, una realtà particolarmente esclusiva e disagiata. Non è un caso che negli anni successivi sia emerso il fenomeno dell’Autonomia Operaia, poi sfociata anche nel terrorismo. Una realtà quindi socialmente esplosiva. Come fotografo, di mia iniziativa sono andato anche a Bologna a seguire e documentare il convegno del ’77 poi sfociato in Autonomia Operaia e sono riuscito anche a entrare al primo processo delle Brigate Rosse a Le Vallette. Ho fotografato Curcio e gli altri dietro le sbarre, come ho fotografato anche altre situazioni socialmente difficili e particolari. Più o meno è sempre stato questo l’elemento che ha fatto scaturire la curiosità della documentazione. Molte mie fotografie sono state poi pubblicate da varie riviste e giornali.

MTS. Riguardo invece al progetto Torino cronaca con la RAI?
DS. Dopo Ragazzi di stadio è iniziata la mia collaborazione con la sede regionale RAI di Torino con contratti da programmista-regista, che a me e a tanti altri della mia generazione ha permesso di realizzare molti lavori. Dal 1980 al 1985 c’era stato il decentramento della RAI e quindi le sedi regionali avevano il potere di produrre, per cui noi presentavamo progetti che in parte venivano accettati. È stata una vera palestra, un laboratorio grazie al quale ho imparato a confrontarmi con la produzione, avendo in più anche la fortuna della messa in onda. Lì ho fatto un sacco di lavori: da Rock, Marco Cipollino Pugile (per la sede nazionale), Torino Mercati Generali (per RAI3 nazionale), a tutta una serie di lavori tra cui Torino Cronaca, sviluppato in 6 quadri. Anche quella è stata una grande palestra perchè ogni volta mi ponevo questioni sulle forme e i linguaggi della rappresentazione e ho avuto grandissima libertà, facendo quello che volevo con risultati per me eccellenti.

MTS. Nel 1983 ha girato invece il primo lungometraggio…
DS. Sì, ho fatto Testadura che è stato invitato al Festival di Venezia e inserito nella sezione De Sica. Poi il film ha dato il titolo alla serie di lungometraggi della RAI sulla nuova generazione di registi, chiamata proprio Testedure. È l’unico film che ho fatto in cui recitavo, ero tra i protagonisti.

MTS. Anche Testadura è un viaggio attraverso Torino…
DS. Il film racconta la storia di una giovane donna, ragazza-madre, che decide di intraprendere un viaggio in Costarica e che, prima della partenza, va a trovare una serie di amici – più o meno appartenenti alla sua classe sociale, quindi ai limiti della marginalità giovanile, non perchè fossero delinquenti ma precari del lavoro – a cui racconta i motivi per cui vuole partire. E alla fine parte. È stato girato interamente a Torino ed è un viaggio di identificazione sia del personaggio femminile sia dei vari personaggi che incontra, ma dove emerge una Torino particolare.

MTS. Qual è la sua particolarità?
DS. È un film interpretato da persone che non fanno gli attori: lo spunto della storia è assolutamente preso dal vero e la persona protagonista nella realtà dei fatti è andata a vivere in Costarica con la figlia. L’ispirazione è quindi partita dalla realtà e io l’ho messa in scena, in 16 mm. Quasi tutti gli interni sono stati girati a casa mia in San Salvario e nel centro storico di Torino.

MTS. Dopo altri lavori, nel 1989 arriva Occhi che videro, il film sulla fondatrice del Museo Nazionale del Cinema di Torino Maria Adriana Prolo, che ha girato nella vecchia sede di Palazzo Chiablese. Un film molto diverso dagli altri, anche nel linguaggio. Come ha elaborato questo ritratto? Cosa l’affascinava del Museo e di questo personaggio?
DS. Innanzitutto, è stato un lavoro che non è nato da me ma dall’allora Presidente del Museo Lorenzo Ventavoli, come ho detto alla presentazione del DVD del film realizzato quest’anno a giugno da I Cammelli col Museo Nazionale del Cinema. È stata per me quasi come una tesi di laurea, nel senso che – purtroppo – per motivi culturali il mio lavoro è stato visto con pregiudizio perchè chi si occupa di sociale è sempre stato, e lo è tuttora, considerato un elemento disturbante, non riconciliato o asservito alla cultura dominante, cosa che contesto e considero un pensiero mediocre e riduttivo per quello che dovrebbe essere un autore di cinema. Se mi sono occupato della realtà sociale, come me ne occupo tuttora, è per dare un contributo al mio Paese di analisi e approfondimento di problematiche che, spesso, non vengono analizzate con la giusta serietà per trovare gli strumenti adatti per approntare interventi che producano cultura e migliorino le condizioni in certi contesti urbani. L’elemento su cui riflettevo problematicamente e criticamente, a partire da Mirafiori Sud ma anche in altre realtà come i ‘ragazzi di stadio’, è che non venivano e non vengono dati gli strumenti culturali di emancipazione ai giovani provenienti in particolare – una volta si diceva – da una realtà ‘sottoproletaria’, socialmente disagiata e con meno strumenti, cioè per la maggior parte figli di immigrati con poche risorse culturali e totalmente sprovvisti di strumenti di emancipazione sociale. Nel momento in cui mi è stato offerto questo lavoro, l’ho considerato un’occasione per dimostrare che facevo cinema, il che vuol dire occuparsi di temi duri ma anche di temi morbidi come può essere la storia di una donna che ha fondato, grazie alla sua testardaggine, un archivio straordinario poi diventato il Museo Nazionale del Cinema di Torino. A questo tema mi sono avvicinato con grande entusiasmo, curiosità e voglia di sperimentare linguaggi che, per motivi diversi, non avevo ancora verificato. Il risultato ha dimostrato tante cose rispetto al fatto che non fossi targato o vincolato dall’ideologia ma da una pura necessità di usare il cinema come strumento di scoperta e conoscenza.

MTS. Nel film è mostrata la magia che si sente entrando al Museo: tutta la collezione della Prolo sul pre-cinema, i rulli di pellicola, le vedute trasparenti. C’è una cura particolarissima della fotografia e della musica, la costruzione di un mondo magico che passa per una speciale cura estetica di ogni componente.
DS. È stata una scelta formale voluta, un viaggio di scoperta estremamentefantastico e sono grato a chi mi ha affidato quest’incarico. Occhi che videro mi ha permesso di divertirmi e giocare con la macchina da presa: mi sono fatto affascinare e ho cercato di affascinare con immagini costruite e inventate per aumentare e valorizzare la leggenda di questa donna, così cocciuta, che con la sua determinazione ha costruito un meraviglioso tesoro come il Museo Nazionale del Cinema, un patrimonio per la città di Torino e per la nazione intera.

MTS. Lo stesso anno con Non c’era una volta inizia il racconto della malattia mentale, che svilupperà negli anni successivi con l’attore Carlo Colnaghi. Nel 1991 esce il video Tempo di riposo e nel 1992 il lungometraggio Manila Paloma Blanca, uno dei suoi film più noti.
DS. Tempo di riposo è iniziato proprio nel 1989 e terminato nel 1991, alla vigilia delle riprese di Manila. Non c’era una volta è nato dalla richiesta di una cooperativa di Torino che si occupava di persone con disagio mentale: mi è stato chiesto di raccontare l’esperienza – incredibile, bella, importante – di ex-degenti dell’ospedale psichiatrico di Collegno che erano stati fatti uscire, grazie alla legge Basaglia, dalla recinzione carceraria del manicomio e che si erano messi a lavorare nel settore delle pulizie. Parallelamente abbiamo fatto anche un audiovisivo, con diapositive e fotografie, dal titolo Cose da matti. Colnaghi l’ho conosciuto nel 1983: avevo appena realizzato Testadura e ritornando da Venezia è venuto a conoscermi nella prima sede de I Cammelli. Per una serie di motivi concatenati e non previsti sono poi partito per seguire le proiezioni di Testadura e ho incrociato di nuovo Colnaghi. Da quel momento – come si dice nelle migliori storie d’amore – “non ci siamo più lasciati” ed è nato un progetto partito con Tempo di riposo, un vero e proprio lavoro di riabilitazione delle capacità attoriali di Colnaghi, che non era più un attore ma un utente dei servizi psichiatrici territoriali. Dopo sette anni di lungo lavoro, attraverso anche l’uso del video in termini terapeutici, si è sviluppato il progetto, poi diventato film, Manila Paloma Blanca, uno straordinario successo artistico sia per me sia per Colnaghi. Per fortuna il film ha vinto diversi premi a livello nazionale e internazionale grazie a cui il mio lavoro ha potuto continuare in modo proficuo, ma sempre con fatica viste le etichette che mi hanno al tempo stesso onorato ma anche isolato.

MTS. Nel film si vede un’altra Torino: c’è di nuovo il centro ma ancora una volta qualcosa in più che racconta la città…
DS. In ogni film c’è uno sguardo, dei bisogni, degli incontri fatti di impressioni a volte casuali che poi si materializzano attraverso la visione: questa è la rappresentazione, questo è ciò che mi succede sempre. A volte il dettaglio può diventare l’universale e il contesto di un’azione espressiva. Torino da questo punto di vista, almeno nei primi anni della mia attività, è stata una grande miniera sia umana che urbanistica, sia fotografica che cinematografica, all’interno della quale mi sono mosso e formato. Così anche per Manila la visione della città è stata confezionata a misura del protagonista Carlo Carbone, il personaggio che interpreta Carlo Colnaghi.

MTS. Che comunque, anche se stavolta è un personaggio di finzione, fa parte di un universo di persone ai margini…
DS. Manila Paloma Blanca è lo sviluppo naturale di Tempo di Riposo. Nella maggior parte dei miei film, se non in tutti e anche quelli di finzione, il rapporto con la realtà è sempre molto stretto e la realtà è sempre stata spunto ispiratore della rappresentazione legata alla finzione: la mia ispirazione nasce sempre dall’osservazione, dal rapporto e dall’interpretazione di questa visione. In fondo in Manila il personaggio di Carlo, interpretato magistralmente da Colnaghi, ha strettissimi legami col Colnaghi uomo e questo è stato l’ulteriore lavoro di terapia e di liberazione dalle catene della sua malattia. C’è da dire che dopo Manila Colnaghi ha riattaccato la spina con la realtà e la sua professione girando altri due lungometraggi come protagonista, uno con Giancarlo Soldi e l’altro con Bruno Bigoni. L’esperienza di Manila è stata l’esperienza più intensa, vitale, emozionante, straordinaria, miracolosa che ho avuto il privilegio di vivere grazie al cinema. Il cinema, ne sono convinto, può cambiare il mondo, e Manila Paloma Blanca ha aiutato Colnaghi a recuperare la sua dignità perduta. Questo vale molto più di centomila film, e ne sono molto contento.

MTS. Col tempo il suo lavoro si differenzia ancora di più: esce da Torino per girare i film di emergenza sul lavoro (Crotone, Italia e Dinamite) prosegue il discorso sulla malattia (per esempio con Come prima, più di prima t’amerò), parla d’immigrazione (Diritto di cittadinanza) e di stragi del sabato sera (Sei minuti all’alba). Tra questi film, c’è un titolo del 1999 che, all’interno del discorso sull’identità che lei fin dall’inizio ha affrontato nel suo cinema, la tocca in modo particolare perchè compie un viaggio nella sua cultura di appartenenza: è Sinagoghe, Ebrei del Piemonte.
DS. Sinagoghe parte da una mia reale necessità culturale e personale. Su mia iniziativa ho avanzato la proposta alla RAI e per fortuna è stata recepita. Sinagoghe arriva dopo sette anni di porte chiuse in faccia – vivo costantemente degli ‘embarghi’ dalla RAI, anche adesso – ed è stato un viaggio di ricerca delle mie radici e della mia storia personale, il mio essere ebreo. Ho fatto un viaggio molto intenso attraverso le sinagoghe del Piemonte, tranne quella di Carmagnola che era chiusa per ristrutturazione. È un lavoro particolarmente raffinato, fotograficamente con uno standard molto elevato e una qualità formale estremamente accurata, quasi di contrasto con le mie opere della realtà, che hanno regole e linguaggi diversi. Questo anche per testimoniare e documentare la mia ricerca che non è vincolata solo a un tema: c’è un bisogno di esprimersi e le forme sono direttamente proporzionali agli argomenti che tratti per superare quella convenzione vincolante, e a volte discriminatoria, che ti classifica e che non ti permette di accedere a certe esperienze.

MTS. Infatti negli anni successivi realizza lavori con forme molto diverse: la video-installazione Tappati la bocca con il Teatro Stabile di Torino e il Progetto di Arte Moderna e Contemporanea della Fondazione CRT sulle collezioni CRT, GAM e Castello di Rivoli in alta definizione con computer grafica.
DS. Considero il cinema un lavoro a 360°. Non mi sono mai fatto condizionare dai temi e sono sempre stato stimolato da curiosità vere. Alcune volte i lavori arrivavano su committenza e sono state proposte che ho accolto favorevolmente perchè erano spunti per sperimentare linguaggi, naturali e necessari per chi fa un mestiere come il mio. Purtroppo sono conosciuto solo per certi tipi di film che ho fatto ma non per l’intera mia opera, come può essere quella legata alla finzione come Vecchie e Mitraglia e il Verme, vere e proprie sperimentazioni in cui ho esercitato una forma estrema della rappresentazione con camera fissa in un grande divertimento di cinema. Certo, i temi sono impegnativi, perchè a me interessa lo scavo della condizione umana e la sua rappresentazione.

MTS. Proprio riguardo al suo percorso di continua indagine e conoscenza negli ultimi anni si è concentrato molto sui giovani, da Volti per RAI3 a Dimmi la verità con lo Stabile. Cosa la incuriosisce della realtà giovanile? Vede in loro una condizione sottaciuta o marginale?
DS. No, assolutamente. Quasi in contrasto con alcuni temi che ho trattato, socialmente ‘a rischio’, Volti per esempio parla della positività di alcuni giovani e di iniziative di giovani che lavorano per costruire il loro futuro – non a caso il titolo di questa serie è Volti, viaggio nel futuro d’Italia – e così racconta di giovani assolutamente positivi e motivati che hanno un progetto e lavorano per realizzarsi. A me interessa la vita delle persone, sia di quelle che non hanno diritto di parola e a cui è negato loro il diritto di esistenza, sia di coloro i quali costruiscono il loro progetto di vita con impegno e sacrificio. Non faccio distinzioni e do la parola a chiunque nel rispetto del suo pensiero, senza mistificare o fare ideologia. Questa per me è sempre stata una scelta e un elemento di distinzione. Sono dalla parte delle persone: cerco di ascoltarle, di rappresentarle, di trovare un giusto equilibrio e una certa distanza per analizzarle e metterle in scena, ma mai con pregiudizi veicolati dall’ideologia. Questo non fa parte della mia cultura.

MTS. Diversi progetti sui giovani sono partiti dalla sua collaborazione col Teatro Stabile.
DS. Il mio rapporto coi giovani è nato quando ho creato qui a Torino, nel 1989, la Scuola di Video Documentazione Sociale I Cammelli, quindi col mio lavoro nella formazione che è proseguito dal 1996 a oggi al Centro Sperimentale di Cinematografia-Scuola Nazionale di Cinema di Roma, all’Università di Pisa e alla Scuola per Allievi e Attori del Teatro Stabile di Torino. Un vero lavoro di contaminazione, stimolo, confronto e ricerca rispetto al non rimanere fermo a certezze che nel tempo si modificano. Lavorare coi giovani mi rinnova in continuazione ed è un modo per allungare la mia vita artistica e non solo un’osservazione passiva e oggettiva. È un’occasione reciproca di rubare il più possibile per imparare l’arte, svilupparla, ed esprimersi. Ho un rapporto coi giovani necessario e vitale.

MTS. Vede alcune similitudini nei percorsi umani dei giovani d’oggi rispetto a quelli degli anni Settanta-Ottanta? Che cosa invece di diverso?
DS. Intanto, posso constatare che assolutamente diversi sono i mezzi che oggi i giovani hanno a disposizione. Una volta non c’erano per motivi economici, adesso invece molti hanno per esempio la tecnologia. Una cosa che li accomuna è la capacità, la sicurezza, la determinazione di costruire un proprio progetto e di realizzarsi malgrado tutto e tutti: la convinzione dei propri mezzi, di essere in grado di essere e di costruire una progettualità per mettersi alla prova, questo li accomuna. I giovani di oggi, invece, hanno una minor carica eversiva, sono più condizionati, paurosi e fanno più paura proprio per queste loro debolezze, perchè succedono poi divaricazioni nel rapporto con la realtà e la non realtà e accadono cose estremamente gravi legate all’uso delle droghe. Questo succedeva anche negli anni in cui ho raccontato, però, la marginalità della droga, dell’eroina e della cocaina nelle classi sociali più basse. Oggi i mezzi e le possibilità ci sono, ma mancano ideali e valori che possano supportare progetti diversi per poter costruire un futuro positivo. C’è la paura di essere e di esistere. Ma questo è il tempo in cui viviamo, un’altra forma di angoscia diversa dalla solitudine dei giovani che ho conosciuto negli anni Settanta e che erano vincolati in modo particolare a una categoria sociale definita ‘sottoproletariato’.

MTS. Nonostante non abbia lavorato con Torino ‘come personaggio’ in Morire di lavoro (2008), nel rigoroso linguaggio del primo piano delle interviste – in cui parlano molti torinesi – emerge oggi la realtà di una città in cui ci sono nuovi poveri, immigrati non integrati, lavoro nero. Una realtà poi di tutta l’Italia perchè il film è un racconto corale.
DS. In questa città ci sono problematiche assolutamente esplosive che vengono nascoste e che a livello istituzionale creano indifferenza e fastidio. Amo Torino, e credo in quella Torino matura e responsabile che ha il coraggio di vedere. Per mestiere racconto e faccio vivere l’umanità, devo quindi raccontare aspetti a volte stridenti con l’ottimismo di regime. Il cinema può cambiare il mondo, bisogna però avere il coraggio di resistere un minuto in più.