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L’ultima notte hanno scritto una canzone, un brano in sardo campidanese. “Per rompere il silenzio, per passare la notte. Poi abbiamo scoperto che ci dava energia”. Sarà la colonna sonora del documentario che da due giorni sta girando con loro Daniele Segre, il regista di “Dinamite”, film sulle miniere poco lontane, dove hanno lavorato, si sono ammalati e a volte ne sono morti i padri degli operai di questo nuovo dramma sardo, a Villacidro. E’ un brano che si salmodia al ritmo di una “Repentina”, genere di cantilena popolare diffusa nell’area meridionale della Sardegna. “Cantiamo la storia di questa fabbrica, e questo gesto, di salire quassù. Diciamo di non volere scendere prima che ci garantiscano che non ci verrà tolto il lavoro”. Così si è spezzato il silenzio della quindicesima notte sotto la tenda di plastica e teloni da camion, sulle gigantesche bombole posate a forma di missile in un recinto del grande cortile della Scaìni, fabbrica di Villacidro ora in liquidazione, occupata da due settimane dai centocinquanta operai dei cinquecento di una vola, il 1979, quando aprì. Sei di loro, il volto mascherato, in forma anonima, hanno deciso il gesto clamoroso, accampati sui serbatoi carichi di otto tonnellate di gas propano.
Sono vent’anni che le fabbriche aperte negli anni settanta in questa area del Medio Campidano, ai confini tra la grande pianura meridionale dell’isola e la zona mineraria fra Arbus e Iglesias, chiudono, pian piano, fra cassa integrazione, riconversioni sbagliate, privatizzazioni fallimentari. A metà di quegli anni, c’erano tremilacinquecento occupati solo tra Snia e Filati. Adesso trecento, in quel che resta: la Keller, vagoni ferroviari, la Scaìni, e in una fabbrica per la produzione di aerei ultraleggeri, in crisi anche quella.
Tre linee per la produzione di batterie per auto, ferme da due anni, da quando è fallita la privatizzazione avviata dalla società dell’Eni, che aveva affidato l’industria a una società svizzera costituita soltanto qualche mese prima, e contro l’opinione del sindacato. L’Agip ha il venti per cento del pacchetto azionario, ma non vede l’ora di liberarsene. Sono quaranta, cinquantenni, lavorano qui da vent’anni. Padri di famiglia, con un solo reddito. Da un anno non percepiscono il salario, gli è negata la cassa integrazione. Hanno consumato la liquidazione, un milione e trecentomila lire al mese. Finita anche questa risorsa. “Arrivano buste paga di mille lire: io l’ho incorniciata, mi vergognerei ad andare a cambiare l’assegno”, dice Renato. L’ultima busta di una delle poche donne impiegate alla Scaìni, Immacolata, ha il segno meno. “Devo restituire duecentocinquantamila lire”.