Articolo di: Morando Morandini, Il Giorno

Data pubblicazione: 08.10.1991

La telecamera di Daniele Segre è come un invisibile confessionale davanti al quale gli interpellati (non so perché, ma mi sembra scorretto dire “intervistati”) non fanno dichiarazioni, ma confidenze. Si alternano le varie cadenze dialettali della penisola anche se prevalgono quelle centromeridionali e, con varie gradazioni d’impaccio, si sente che è gente abituata a parlare, anche in pubblico. Altrimenti che delegati sarebbero? Parlano del pubblico e del privato, del malessere, dell’insoddisfazione, delle delusioni, dei segni, delle speranze. Non parlano soltanto, o non prevalentemente, di questioni sindacali, ambito nel quale non mancano le critiche al sindacato, le autocritiche, la sfiducia verso le nuove leve che badano solo alla moneta, vogliono la pappa pronta e non hanno tempo da perdere con i sindacati. Parlano di droga, razzismo, democrazia, camorra, di sentimenti. Alcuni di loro, d’altronde, non sono italiani: un metalmeccanico africano, una ragazza musulmana. E c’e una biondina che da due anni sta con un senegalese, e ha i suoi problemi. È un programma insolito per la forma. Sono 70 minuti di PPP, ossia di primissimi piani, a telecamera ferma alla stessa distanza. Volti e voci, come dice il titolo: una settantina di volti, alcuni dei quali ritornano. Nel montaggio Segre ha conservato qua e là anche le pause, i momenti di silenzio, nati dall’imbarazzo e dalla riflessione, e a volte sono silenzi più eloquenti delle parole. Come nella vita. Non sono un politologo né uno specialista di problemi sindacali e, perciò, mi è difficile dire quali siano le conclusioni generali che si possono tirare da questa immersione audiovisiva nel mondo operaio d’oggi. Come spettatore, però, so che ho trovato in questa Partitura per volti e voci un grande rispetto per la persona umana e la sua dignità. So anche che mi piacerebbe conoscere molti di colore che, stimolati da Segre e dalla sua telecamera, hanno aperto uno spiraglio sulla loro interiorità.