Silvana Silvestri – Il Manifesto

Si apre con una tematica forte, la dignità del lavoro, 13a edizione del Festival del cinema europeo di Lecce (fino al 21), diretto da Alberto La Monica e Cristina Soldano. Nel programma oltre al concorso, la personale di Emir Kusturica (domani Nichi Vendola incontra il regista), l’omaggio a Ken Russell e a Sergio Castellitto, la rassegna di cinema sloveno. La sezione «Cinema e realtà» entra subito nel vivo della problematica operaia con un incontro con Luciana Castellina, Giorgio Airaudo, segretario nazionale Fiom settore auto, la Fiom di Taranto e Lecce. Parlano di Fiat i film L’accordo di Jacopo Chessa, Privilegi operai di Canale e Crua, e in Sic Fiat Italia Daniele Segre ci mostra come sia stato lungo e scientifico il cammino per distruggere diritti acquisiti con le lotte, sia che si tratti di minatori del Sulcis, di operai dell’edilizia, o del ricatto torinese.
«In una società che sembra aver smarrito la questione del lavoro e della dignità del lavoro emerge l’elemento della solitudine degli operai», commenta Luciana Castellina. Gli operai di Segre, ritratti come specchi dello spettatore, sua coscienza anche più nascosta, ci mostrano che la classe operaia non è sparita come si tende a far credere: «La vertenza Mirafiori mi ha fatto riflettere – dice Segre – sul perché si fosse arrivati a questo punto. Le cose non sono capitate per caso, non c’è più reazione per la dignità dei lavoratori. Io cerco di creare anticorpi positivi per un cambiamento. Dopo Morire di lavoro non volevo più fare film, sono ferite che si accumulano, ho fatto fatica a riprendere questo viaggio, perché non sempre è facile soffrire. Bisogna accettare o lottare». Si deve ricordare che Daniele Segre trova da tempo tutte le porte chiuse in Rai, per aver toccato oggetti pericolosi, il quotidiano l’Unità ad esempio (con Pietro Ingrao che sottolineava la sconfitta generale della sinistra e del mondo). Ma poiché vuole continuare a vivere in un paese libero, si è rimesso al lavoro anche in stretto contatto con il pubblico.
Come Segre sa creare l’impatto di carne e sangue attraverso i personaggi non personaggi dei suoi lavori, il regista franco algerino Tony Gatlif inserisce i suoi protagonisti in una ritmica musicale che evidenzia le affinità di sfruttamento nell’Europa di oggi. Il suo Indignados, presentato alla Berlinale (e a Roma nei Rendez-Vous del cinema francese), fa venire in mente la lettura che Tano D’Amico fa della Tempesta di Giorgione. E non è casuale, vista la sua lunga frequentazione con i rom: la donna che si ripara sotto l’albero, diceva, è la zingara, inseguita da cacciatori e cani. Gatlif, che è stato da sempre il cantore del mondo gitano e della sua musica, inizia il film con la corsa affannosa della protagonista, la ragazza venuta dall’Africa, cacciata da un paese all’altro, senza capire più dove si trova e cosa deve fare.
Ispirato a Indignados, il libro di Stéphane Hessel, scampato ai campi di concentramento, poi diplomatico francese che partecipò alla stesura della carta dei Diritti dell’uomo, ha dato modo a Gatlif di realizzare «un film militante», che non si traduce in rabbia ma in indignazione: «Non capivo perché in Francia il governo attaccasse persone povere come rom, emigrati. Il libro di Hessel mi ha dato una grande speranza. Per fare questo film ho dovuto aspettare che i giovani spagnoli prendessero la Puerta del Sol, e poi Grecia e Portogallo. Non sono un documentarista, anche se all’inizio mi sono soffermato su slogan potenti come ‘Alzati dal divano’, ‘Banchieri ladri’. Sono andato al Prado e mi sono seduto di fronte a Guernica per un’ora. Picasso non aveva dipinto il paesino di Guernica, ma tutta l’Europa a venire, era un visionario. Non c’ è ancora la guerra, ma ci sono le armi finanziarie e la gente che si suicida. Ho voluto un punto di vista esterno, la ragazza dallo sguardo innocente che viene a cercare un Eldorado che non esiste. É una clandestina, incontrata in un bar, l’ho scelta come Pasolini i suoi ragazzi che corrono nei campi».
Alcune sequenze sono girate ad altezza di un povero giaciglio, di scarpe, i soli mezzi di locomozione, nel porto di Patrasso, dall’Acropoli dove è stata inventata la democrazia, poi in Spagna e in Francia. «L’idea è di seguire i clandestini che vengono da tutto il mondo ma non dicono nome né paese di origine. Il nostro precariato diffuso fa scomparire i clandestini, li rende invisibili». Ogni sequenza del film ha una forte valenza ritmica, è il rumore delle lattine che rotolano per strada, delle traversine del treno, della corsa, della speranza che diventano bouzuki o flamenco. Poesia e non violenza sono le due dominanti e gli chiediamo perché, pensiamo che ci vuole ben altro: «Ho lavorato con altri filosofi prima di Hessel. Se attacchiamo direttamente perderemo, mi dicevano, ogni rivolta con le armi è persa. L’unica cosa che può funzionare sono due, trecentomila persone per strada, come quando si gridava ‘El pueblo unido jamas sera vencido’». E aggiunge: «Ai greci direi di non pagare il debito, come hanno fatto l’Islanda o l’Argentina. L’Italia è l’unico paese dove si è espressa la violenza, ma per lo più sono stati indotti ad essere violenti. Anche in Grecia c’è stata violenza».
Ma i movimenti si pongono il problema dell’organizzazione? «In Spagna non ci sono partiti, ma sono ben organizzati, dopo un mese di occupazione alla Porta del Sol non hanno lasciato nulla per terra, si consigliava di bere acqua e non birra, c’era un centro medico. É un movimento mai anarchico che dice: non vogliamo pagare questa crisi. E questo è già l’inizio». Gli chiediamo se ha fatto il ’68: «Il ’68 in Francia non erano gli indignados: oggi sono canzoni, gioia, ballo. Allora ci sono stati cambiamenti sociali, però è durato poco e poi c’ è stata la catastrofe».