O.B./L’Arena (Verona)

La tristezza del Lido è ormai proverbiale, ma è superata dalla malinconia che prende il volontario spettatore che si ferma ad aspettare l’inaugurazione di una Mostra di Venezia incapace di richiamare divi e pubblico ed è così costretto a meditare su quell’ammasso di legname che ingombra ed incombe davanti all’entrata del Palazzo del Cinema.
Vero monumento allo spreco, al denaro pubblico gettato senza vergogna. Non resta allora che voltarsi e andare verso la spiaggia dell’Excelsior ripensando a De Niro e alla McGovern innamorati nell’indimenticabile «C’era una volta in America» di Sergio Leone. Ricordi subito dissolti dal vuoto dei lunghi viali. C’è stata una festa per l’inaugurazione, una festa riservata ai pachidermi che stanno affondando la popolarità del cinema, la Mostra non ne aveva bisogno, meritava più luci, più gente vera davanti ad un Palazzo meno opaco, più personaggi, più, in fondo, immaginario cinematografico.
Si è aperta ieri la «Vetrina del cinema italiano» con il deludente «Manila Paloma Bianca» del piemontese Daniele Segre uno dei nuovi autori più interessanti per impegno e continuità. Egli paga due cose, fondamentalmente: la difficoltà di tenuta e l’eccessivo intelettualismo della sceneggiatura e della resa cinematografica, questo dovuto alla massiccia presenza in fase di scrittura e come interprete di un attore incapace di uscire da schemi adatti come Carlo Colnaghi. Il film mette in scena la vicenda di un attore diventato barbone dopo una lunga degenza in manicomio: la casuale ricerca di soldi lo porta a contatto con una giovane donna che si prende cura di lui. Lei è ebrea, non che la cosa sia importante, ma allunga un po’ la storia. Finisce con lui che cerca di instaurare un rapporto più forte e con lei che lo mette alla porta dopo avergli regalato momenti di sincera felicità. Lui così torna sulla strada, sempre accompagnato da una coscienza in bianco e nero che spiega al pubblico la diversità di chi fa l’attore. Sinceramente inutile e presuntuoso nel presentarci una trita storia d’arte e d’amor, il film di Segre ha il merito di riportare alla ribalta un bravo direttore della fotografia, Luca Bigazzi, che firma anche l’atteso «Nero» di Soldi, per il resto l’appuntamento e rimandato ad una migliore occasione.