Sergio Naitza / L’Unione Sarda

L’operaio senza volto
Il dramma della Scaini nel film di Segre

Per capire cosa succede quando il lavoro non c’è più. Quando a 45-50 anni sei inutile come un pezzo della tua fabbrica, svuotata e chiusa in un silenzio paludoso. Quando lotti per un tuo diritto e questo ti viene negato: dalle spietate leggi del mercato. dal galoppo della privatizzazione, dalle regole della flessibilità. E dagli errori del passato. Operaio: sembra una parolaccia al giorno d’oggi. Professione “desueta”, emarginata dai rampantismi della new economy e dalle imposizioni della tecnologia. Forse perché l’operaio per difendere il suo ristretto spazio vitale si porta ancora dietro una coreografia che non gradisce chi sta a Palazzo, cortei, bandiere rosse, sit-in, rulli di tamburi, volantini, la verbosità del sindacalese. Ma poi arriva un film come Asuba de su serbatoiu e vedi che non c’entrano i colori politici o i rigurgiti anticomunisti, c’entra uomo col suo diritto inalienabile: il lavoro. L’uomo schiacciato dalle aziende obbligate alla modernità e al profitto. L’uomo come carne da mandare al macero. L’uomo che non vuole rinunciare alla sua dignità.
E’ tornato in Sardegna Daniele Segre, regista dell’emergenza sociale. Dopo Dinamite – il racconto della crisi dei minatori del Sulcis – un’altra immersione nella depressa economia isolana. Un anno fa è rimasto colpito da un’ immagine simbolica vista in tv. La protesta degli operai “in mobilità” della Nuova Scaini di Villacidro, appollaiati sui bomboloni di gas propano, col volto coperto. Come a nascondere la loro faccia, annullarsi per la vergogna, cancellare lo status di lavoratori. Tanto è bastato per decidere di farci un film, dare visibilità a quei volti imbavagliati per farli diventare un caso emblematico. Oltre i confini sardi, oltre la cronaca: il caso di persone impossibili da riciclare nel mondo del lavoro, travolte dalle implacabili regole delle privatizzazioni, cavie di un precario presente che sarà il nostro futuro. I dipendenti della Scaini come i ferrovieri inglesi del film di Ken Loach (Paul, Mick e gli altri) e viceversa: per dire che anche questa è globalizzazione, che i drammi di color che sono sospesi, fra le trappole della concertazione, sono gli stessi nell’Europa della incerta congiuntura economica.
Ci sono immagini cariche di significato in Asuba de su serbatoiu e parole altrettanto forti e sofferte, venate di una angoscia che si scontra con l’orgoglio di questi operai. «Chi non c’è passato non riuscirà mai capire cosa vuol dire perdere il posto di lavoro». «A momenti pensi di farla finita». «Son tre mesi che non pago l’affitto, chiedo l’elemosina a mia suocera». «Abbiamo già investito una parte della liquidazione». «Facevamo le migliori batteria d’Europa». «Dentro di noi dobbiamo dirci che almeno ci abbiamo provato».
Frasi amare, sputate dal bavaglio, dagli operai che hanno messo la tenda sui serbatoi e occupano notte e giorno la fabbrica per evitare la chiusura e il licenziamento. Mentre gli altri compagni di lavoro si organizzano e discutono: le strategie di lotta («Vogliamo garanzie, sono 2 anni che ci prendono in giro»), i ricordi («Eravamo 5000 in zona ora siamo 300»), il rifiuto del passato («Non voglio emigrare come mio padre»). Segre li segue nella trasferta romana per un incontro coi vertici dell’Agip, si intuisce dai volti pensierosi e dal tunnel nero che imbocca il treno che non ci sarà vittoria. Il faccia a faccia con il dirigente dell’azienda diventa illuminante. Parole altrettanto feroci e vere, manifesto della nuova impresa: «Prima l’investimento non si faceva finalizzato a una presenza sul mercato ma a dare occupazione, oggi si fa per remunerare l’azionista». Prospettive evanescenti. «Il padrone è un concetto che non esiste più. C’è l’azionista. E noi siamo in concorrenza con gli altri».
Nessun manicheismo politico o proclama, al centro del film c’è sempre l’uomo. Un racconto senza ricatti emotivi, privo di musica – solo nel finale la canzone composta dagli stessi operai, quasi una nenia straziante – ritmata dal soffio del vento che frusta le bandiere rosse e inumidisce l’occhio delle sentinelle col bavaglio. Sembra che inizi come un western Asuba de su serbatoiu, volti trucidi sul treno e “banditi” asserragliati in un fortino. Ma non ci sono buoni e cattivi, c’è invece una atmosfera irreale, la dilatazione del tempo: gli operai sui bomboloni in una attesa da deserto di tartari, a spiare coi binocoli un nemico che invece ti ha già preso alle spalle. Si finisce come in uno squarcio fantascientifico: il profilo allungato dei serbatoi sulla deserta pianura campidanese, sotto una luna piena – assomiglia a una astronave marziana. E sopra ci sono gli alieni, gli operai abitanti di un “altro” mondo.