Goffredo Fofi/ Rinascita

La novità più significativa e promettente è, a mio parere, la comparsa sulla scena di una piccola e per ora molto fragile scuola torinese. I film da essa realizzati, documentari o a soggetto, si caratterizzano per una attenzione al sociale che è in genere secondaria o assente negli altri. Si sono visti a Bellaria cortometraggi sempre interessanti e tecnicamente ben fatti, ma soprattutto due lungometraggi, Vite di ballatoio di Daniele Segre e Venerdì era, lunedì mattina, di Alberto Chiantaretto e Daniele Pianciola, che meritano davvero di essere diffusi e discussi con ogni attenzione. Nel primo (un video) Segre, già noto per molti documenti di cinema-verità, raggiunge una maturità che è insieme stilistica e morale. Le vite di ballatoio sono quelle di personaggi doppiamente emarginati: immigrati dal Sud e insieme transessuali o travestiti. Sull’argomento, molto cinema-verità internazionale ha offerto in passato opere interessanti, ma non sempre prive di compiacenze, troppo “dentro” o troppo affascinate, o al contrario troppo fredde e scostanti. Lo sguardo di Segre è. per fortuna. di un’ammirevole misura, caldo ma insieme attento a mantenere una certa distanza.
I suoi protagonisti sono persone di mezza età, in sostanza dei vinti, privi ormai di quel nevrotico vitalismo che per esempio dimostrano i protagonisti di un altro film torinese, Stupende le mie amiche, di Alessandro Scalco (un altro cineasta di notevole talento nell’elaborazione di un linguaggio a metà tra cinema diretto e costruzione narrativa a soggetto) o di quei dolorosi ripiegamenti che caratterizzano i più giovani. Per brevi scene di vita quotidiana che lasciano grande spazio alla confessione, al dialogo intimo, alla divagazione e alla fantasticheria, Segre ce li avvicina raccontandocene una fatica di vivere che non è solo loro, in una sottile progressione di approfondimenti che culmina in una bellissima scena finale, il ballo triste tra due transessuali che è anche un’interrogazione sulla sessualità, sul suo mistero e sulle sue incompletezze.

L’altro film citato, formalmente meno maturo e rigoroso, affronta un argomento che riguarda strati molto più ampi, la giovane classe operaia torinese e, al suo interno, quel particolarissimo tipo di nuovi emarginati che sono i cassintegrati. Pur servendosi di piccoli attori assieme a personaggi «presi dalla vita» e che in sostanza recitano se stessi, pur partendo da premesse narrative e da una sceneggiatura lungamente elaborata, Venerdì sera, lunedì mattina appare meno chiuso e risolto che il film di Segre. E come un brogliaccio di un film da fare, una prima stesura di romanzo, che tuttavia ha già una sua maturità e completezza, anche se alle ambizioni non corrisponde un risultato adeguato, per il peso, forse. di una volontà nonostante tutto didascalica. Vi si narra il week-end di un gruppo di amici (un ferroviere, un carrellista, un cassintegrato a zero ore, un ex delegato Fiat separato dalla moglie) nel momento in cui il loro tentativo di vita in comune va frantumandosi, e in un particolarissimo fine-settimana che è quello del primo maggio, un primo maggio piovoso e molto malinconico.
Anche in questo film si narrano con delicatezza e scioltezza storie vere e dure, e i meriti della narrazione sono conseguenti e non sovrapposti o paralleli alla storia che si racconta, al farsi e sfarsi di legami e in discussioni che rimandano sempre a un contesto: la Torino di questi anni, e in definitiva la fine di una certa cultura operaia, in una Situazione di trapasso non si sa bene verso che cosa, ma che segna l’intimo dei personaggi di piaghe concrete, storicamente e socialmente determinate. è come se in questa città ciò che è accaduto un po’ dovunque (’68 e ’69, vittorie e sconfitte, anni di piombo e anni di disgregazione) abbia lasciato un segno molto più profondo, non facilmente rimarginabile, nella coscienza di tutti, e sedimentato una difficoltà, tante difficoltà, ma senza rimozioni e dimenticanze. Questa diversità antropologica e intellettuale torinese si avverte anche nel video di Michele Buri, meglio fatto ma nella sostanza più ingenuo, o finanche in quello su John Cage di Marco Di Castri: nel primo per la dimostrazione di una volontà di capire e di capirsi per poter riaffrontare il reale, nel secondo per il rispetto non superficiale con cui si affronta un autore. Insomma, vedendo un film torinese si ha l’impressione di una solidità e misura, e di un bisogno di ragionare su problemi generali che mancano alle altre cinematografie regionali italiane.