Lietta Tornabuoni/ La Stampa

«Tempo di riposo», il video di Daniele Segre realizzato con la Cammelli Factory presentato ieri sera ad Asti Teatro, è un terribile ritratto di ex attore, Carlo Colnaghi, 46 anni, legato negli Anni Sessanta al laboratorio del Piccolo Teatro di Milano, oggi uscito di scena, solo, povero, disturbato, per tre quarti d'ora racconta in primo piano se stesso, rivolto al regista invisibile o agli spettatori: magro, tormentato, con i capelli grigi, ha gli occhi vuoti della nevrosi, la faccia desolata agitata da repentini sussulti, le dita inquiete che toccano insistenti le guance, le labbra. Ogni tanto, provocatoriamente o distrattamente, si toglie la dentiera e seguita a parlare agitandone i pezzi davanti all'obiettivo. Ogni tanto, appassionatamente, prende a recitare: Shakespeare, «Woyzeck». Racconta la sua disperazione: «Mi sento a disagio, vuoto, nullo, solo, senza nessuno con cui parlare. Non mi va di lavorare, il lavoro è una condanna. Ho bisogno di una donna, di una casa, di una vera amicizia. Non sono più andato alla Usl perché non ho più voglia di vedere dottori e handicappati. Non ha più senso andare dagli amici a chiedere le venti, le trentamila lire per tirare avanti..». Vorrebbe andarsene: «Penso di partire, quando mi danno il passaporto. Ho pensato di andare in Africa, o in Jugoslavia». Ricorda il passato: l'adolescenza trasgressiva; gli amici («uno che era stato in manicomio, poveretto, e parlava senza sapere a chi parlava, vivevamo insieme in una topaia, ma ci andava bene così»); le ragazze, lo studio della recitazione, i compagni che hanno fatto carriera («si sono integrati in un sistema a cui avrei voluto appartenere, da cui mi sono autoeliminato e mi hanno eliminato»). Parla del teatro: «Certe notti sogno d'essere in palcoscenico». Parla d'amore: «Ho fatto l'amore con una donna due anni fa, ma la dentiera non me l'ero levata».
Il lungo terribile monologo mescola confessione e recitazione: ma un attore non smette mai d'essere tale, i confini tra artificio e verità s'imbrogliano, i testi teatrali e i resoconti di vita si completano e nutrono a vicenda condensandosi nella faccia logorata e straziata del monologante. Daniele Segre è sempre stato interessato alle marginalità, alle vite perdute o trovate e alla cognizione del dolore, nel suo cinema che è una forma di fiction anche quando si presenta come documentario: con «Tempo di riposo» va oltre, arriva a una narrazione filmica solida e densa, intensa e strutturata che suscita, insieme con la pietà per il soggetto del racconto, il dubbio dell'ambiguità, del complotto d'autore, della recitazione senza fine.