Gabriella Gallozzi/l'Unità

Donne «resistenti» al Lido, nel giorno del nubifragio che ha messo ko la «potente macchina» della Mostra, allagando persino la sala stampa, già abitualmente fuori uso per i giornalisti, «accatatastati» fin nei corridoi, in cerca dell’unica connessione wireless a disposizione in tutto il festival. Dopo Sofia Coppola e Roberta Torre, ospiti della selezione ufficiale, ieri, l’altro festival, quello delle Giornate degli autori, ha dato spazio a voci di donne decisamente meno esposte dal punto di vista mediatico. Ma decisamente più forti e coraggiose nel loro cammino di verità. Stiamo parlando di due documentari distanti per tematiche e stile, eppure accomunati dall’urgenza di raccontare: le madri e le mogli degli operai morti all’Ilva di Taranto, a cui dà voce Valentina d’Amico nel suo La svolta. Donne contro l’Ilva e il poetico ritratto di Lisetta Carmi, un’anima in cammino di Daniele Segre, in cui ripercorre la vita della celebre fotografa ottuagenaria dallo spirito di ragazza.

Storie di donne «combattenti» che dicono di un paese dove la giustizia è morta. Così a Taranto di fronte ai tanti processi contro la «cattedrale dell’acciaio» che ha il triste primato in Italia degli omicidi bianchi: 43 morti sul lavoro in quindici anni. Come raccontano le statistiche, ma come raccontano in prima persona, nel film di Valentina d’Amico, le vedove di quegli operai che si sono costituite parte civile contro l’Ilva, senza riuscire nemmeno a portare in tribunale il «padrone», Enrico Riva, proprietario dello stabilimento dopo la privatizzazione di metà anni 90. Anzi, «nel caso di mio marito -, racconta la vedova di Silvio Murri, morto in fabbrica a 38 anni, – al processo è stato incolpato l’altro operaio che lavorava al suo fianco. Mentre Riva non è mai stato neanche imputato». E poi Paolo Franco, aveva 27 anni quando è morto. Adesso è sua madre a chiedere giustizia. «È assurdo pensare che i ragazzi muoiano quando vanno in discoteca, ancora più assurdo è pensarlo quando vanno a lavorare. E per 900 euro al mese, poi».

Scorrono le immagini della più grande acciaieria d’Europa, così com’era stata concepita nel ’60, in pieno boom economico, quando si chiamava Italsider. Poi la crisi dell’acciaio, la privatizzazione o meglio la «svendita», come denuncia il sindacato, e via via il bollettino di guerra: intossicazioni, ustioni, morti. Ma non solo. La diossina, le dosi massicce di scarichi che hanno fatto di Taranto la città più inquinata d’Italia. La crescita dei tumori, delle leucemie, dei disturbi alla tiroide. Sono ancora le donne a raccontarlo. Madri di bambini malati, o vittime in prima persona.

Storie di coraggio, come quello che ha sempre accompagnato Lisetta Carmi, questa ragazza di 86 anni che ieri ha portato al Lido la sua travolgente vitalità. Decana delle fotografe italiane Lisetta ha pensato la sua professione come strumento di verità «per scoprire l’umanità delle persone», racconta in questo appassionato ritratto di Daniele Segre. Figlia di una famiglia della buona borghesia genovese non si è mai arresa alle convenzioni, i suoi scatti sono andati controcorrente, fotografando chi nella società dei «fantastici anni Sessanta», per dirla con Celestini, è sempre stato ai margini. Che fossero i portuali di Genova o il mondo dei trans della celebre via del Campo, cara a De Andrè. Quando uscì il suo libro Travestiti fu un vero scandalo per l’Italia perbenista di quegli anni.

«Nelle librerie di Milano – racconta – veniva nascosto sottobanco. I travestiti venivano considerati degli schifosi, ma schifosi erano i loro clienti, uomini dell’alta borghesia e preti». Si descrive come «un’anima in cammino» Lisetta. Alla costante ricerca della verità, come quella che ha ritratto nelle sue foto più celebri: Ezra Pound nel suo «rifugio» di Rapallo, in cui cattura dolore e silenzio di un uomo alla fine. Scatti che hanno fatto il giro del mondo e che hanno vinto il premio Niépce. Da quarant’anni Lisetta si è ritirata a Cisternino, in Puglia dove ha fondato il primo Ashram occidentale. Dice di aver lasciato la fotografia perché ormai «l’anima delle persone riesco a leggerla senza obiettivo».