Marina Saluto/ LA Stampa – Torinosette

Daniele Segre, quarantenne cineasta torinese, si è affermato nel campo del documentarismo sociale. Con il lungometraggio «Manila Paloma Bianca» è stato premiato al Festival di Venezia '92 e ha ottenuto numerosi riconoscimenti internazionali.

Quando ha deciso di fare del cinema?

Ho iniziato come fotografo della realtà. Sono passato alla macchina da presa perché era un mezzo più idoneo alle mie esigenze e mi permetteva di esprimermi al meglio, avevo tante cose da dire e ne ho tuttora. Non ho frequentato nessuna scuola cinematografica e non ho neanche avuto raccomandazioni, ero convinto che il cinema fosse per me lo strumento di comunicazione ideale.

Quali sono state le tappe principali della sua carriera?

Prima ho vinto la Milano-Sanremo, poi ho vinto il Giro… a parte gli scherzi, ho girato il mio primo lavoro nell'inverno 1975/76, ho vinto alcuni Festival internazionali e l'ultimo riconoscimento l'ho ottenuto a Venezia.

Si è ispirato a qualche autore cinematografico in particolare?

Sì! Mi sono guardato allo specchio e ho avuto l'ispirazione… no, non voglio prendervi in giro, il cinema visto mi ha molto stimolato ma non particolarmente influenzato. L'ispirazione parte dalle mie necessità e non da «citazioni» altrui.

Nei suoi film si possono riscontrare elementi autobiografici?

Considero il cinema un'esperienza totalizzante, non strettamente legata a me stesso, in alcuni lavori ci sono comunque dei cenni autobiografici.

Qual è il motivo che l'ha spinta a produrre più fiction mentre in precedenza si occupava principalmente di documentari?

lo non faccio questa distinzione, sono i critici che sezionano il mio lavoro. Bisogna avere qualche cosa da dire; in alcuni casi è più efficace il linguaggio del documentario, in altri è più incisiva la fiction. Il mio è un lavoro di sperimentazione del linguaggio.

Come è nato il suo ultimo film: «Manila Paloma Bianca»?

Dall'incontro con l'attore Carlo Colnaghi è nato lo spunto che successivamente ho elaborato con lo sceneggiatore Davide Ferrario. Insieme abbiamo girato il video «Tempo di riposo». Partendo da questo lavoro nell'arco di sei anni abbiamo realizzato «Manila Paloma Blanca», film che mi ha permesso di superare quel ruolo di marginalità che isola pur essendo di moda.

Quali sono i motivi del suo interesse per il mondo dell'emarginazione?

La mia attenzione non è puntata in particolare verso il mondo dell'emarginazione; mi occupo di tutte le realtà prive del diritto di parola, delle persone che non hanno possibilità di esprimersi.

E' difficile per un regista di film «alternativi» o poco commerciali trovare i finanziamenti per la produzione?

Non vi passo la definizione di «alternativo», è un termine di cui si abusa; per ciò che riguarda i finanziamenti sono contrario all'assistenzialismo, occorre invece mettersi in rapporto e inserirsi all'interno del mercato.

Cosa ci può dire a proposito della scuola di regia che dirige a Torino?

La scuola è un punto centrale della mia attività Questa esperienza, che dura ormai da cinque anni mi dà la possibilità di portare avanti il mio itinerario e la mia volontà di sperimentazione. Vorrei inoltre che Torino tornasse ad essere un riferimento nazionale in campo cinematografico. Ho cercato di creare delle condizioni non prettamente scolastiche, ma che mirino ad inserire i giovani nel mondo del lavoro. Alcuni ragazzi della scuola hanno già avuto contatti professionali e metà della troupe di «Manila Paloma Blanca» era composta da ex allievi. Il cinema si fa anche in questo modo.