Roberto Moliterni

Dopo Vecchie, Daniele Segre, regista e documentarista torinese, si cimenta di nuovo con la fiction nel suo nuovo film Mitraglia e il Verme, abbandonando – almeno apparentemente – il “cinema della realtà”. Un racconto spigoloso sui nuovi poveri, ambientato nei bagni dei Mercati Generali. Escluso da Venezia, lo si vedrà a marzo al Bergamo Film Meeting e alla Casa del Cinema di Roma. Nell’intervista, il perché di un film così ruvido e le difficoltà sempre maggiori di fare un cinema veramente indipendente.

Mentre il resto del cinema improvvisamente si dirige verso il documentario, lei guarda alla fiction. è un caso o c’è dell’altro?

Nel mio lavoro non ho mai smesso di pensare e realizzare quelli che Lei definisce documentari, io li chiamo film, ma ci sono anche necessità di ricerca espressiva, d’altronde già emersi in alcuni miei lavori di rappresentazione della realtà, che mi hanno fatto sentire l’esigenza di raccontare “altro”. Così sono nate le esperienze di “Vecchie” e di “Mitraglia e il Verme”.

Non le fa rabbia che arriva un americano, fa un documentario e tutti si accorgono dell’esistenza di questo genere?

Mi fa molto piacere che ora si parli sempre più spesso del cinema documentario: ma ci voleva Michael Moore per scoprire questo genere? La “provincia italiana” ha scoperto e si è buttata con il solito tempismo su un genere che ha fatto e costruito la storia del cinema italiano; non mi fa rabbia ma mi fa pensare molto. Probabilmente se io mi fossi chiamato “Segrosky” il mio film sulla chiusura dell’Unità e quello sugli operai sardi asserragliati su dei “bomboloni” di gas propano sarebbero diventati d’ufficio dei cult del cinema documentario italiano. Invece hanno trovato solo la stupida censura e non hanno avuto il diritto di visibilità. Come mai nessuno si è domandato perché una cosa così è successa? Come mai questi film di critica sociale e politica non hanno avuto il diritto ad esistere? Forse perché criticavano una parte della sinistra che non ama guardare con serena lucidità lo stato in cui si è ridotta?

Un guardiano di latrine che sogna di riscattarsi vincendo alle scommesse sui cavalli e un dipendente dei Mercati Generali strozzino. Sono i personaggi del suo film, ma potrebbero benissimo essere protagonisti di un qualsiasi notiziario delle 13. Sembra di tornare ai tempi della “banalità del male”. Non le fa paura questa Italia?

Non mi fa paura, mi indigna il tempo nel quale stiamo vivendo e quest’Italia è particolarmente inquietante. “Mitraglia e il verme” è la storia di un presagio, di un grave presagio che spero non si avveri.

A chi è ‘utile’ questo film e cosa voleva esprimere di preciso?

Questo non è un film che deve per forza essere utile. Rappresenta un’urgenza da parte mia di raccontare una forte inquietudine di fronte ad un grave degrado che sempre di più ci avvolge e ci sta trasformando in tanti “Mitraglia” e in tanti “Verme”. In questa storia non c’è speranza e un po’ ne sono rammaricato, ma è così ed è inutile fingere buonismo.
Il film è fatto di tre soli piani-sequenza a punto di vista fisso. L’impressione è quella del teatro, che lei del resto ha anche fatto. Rientra nella volontà, nonostante la fiction, di restituire fedelmente il tempo della realtà? Ancora “cinema della realtà”, dunque?
E’ cinema e basta. Può naturalmente diventare anche un testo teatrale come d’altronde è stato per il mio film precedente “Vecchie”.

Sandra Lischi, in un suo libro (Un video al castello), la associa audacemente al videoartista Gianni Toti. Questo film sembra un po’ darle ragione. Condivide questo accostamento?

E’ presto per dirlo, ma è un accostamento che rende onore alla mia ricerca artistica e di questo sono molto grato a Sandra Lischi, con la quale collaboro come docente all’Università di Pisa.

Da direttore di festival (Bellaria), come spiega l’esclusione del film dall’ultima Mostra del Cinema di Venezia?

Come direttore non posso dire nulla perché anche noi a Bellaria a volte ci troviamo ad escludere opere che forse meriterebbero un’attenzione maggiore. Come regista la considero una cattiveria e un atto di codardia, ma per fortuna i film restano, i direttori di festival cambiano.

Allora Segre, quand’è che mette la testa a posto e fa un bel film per tutta la famiglia da mandare in onda il lunedì sera su Raiuno?

Ho sempre creduto nel servizio pubblico e non a caso la mia ultima serie “Volti”, che ho realizzato per Raitre, malgrado la messa in onda in tarda serata, era ed è per le famiglie, quindi non si tratta di mettere la testa a posto, ma di avere le teste giuste per posti strategici e di responsabilità che garantiscano il diritto e il rispetto dei telespettatori italiani. Purtroppo in questo momento queste “luci” non ci sono e la paura attanaglia chi dovrebbe garantire il rispetto di questi diritti, e questo è molto grave.