Silvana Silvestri/Il Manifesto

In fatto di record nega­tivi l’Italia ne vanta parec­chi, è recen­tis­simo il risul­tato del primo posto in clas­si­fica per sui­cidi in car­cere nel nostro paese: Sbarre a cura di Daniele Segre, film rea­liz­zato dagli stu­denti del Cen­tro Spe­ri­men­tale arriva con le sue straor­di­na­rie testi­mo­nianze a porre il pro­blema al cen­tro di qua­lun­que dibat­tito poli­tico. Anche l’anteprima del film si è svolta in un con­te­sto ecce­zio­nale, nel corso del festi­val del cinema euro­peo di Lecce, all’interno del car­cere cir­con­da­riale che pos­siede alcune carat­te­ri­sti­che che lo dif­fe­ren­ziano da altri: da un lato car­cere di mas­sima sicu­rezza per delitti di par­ti­co­lare gra­vità, dall’altro arte­fice di inte­res­santi ini­zia­tive che coin­vol­gono i dete­nuti, come le mani­fat­ture tes­sili, capaci ormai di espor­tare i pro­dotti, i lavori di giar­di­nag­gio, e i lavori di sco­perta e boni­fica dei ter­reni dove sono occul­tati rifiuti tossici.

Il festi­val da tre anni anni porta in car­cere alcune gior­nate della mani­fe­sta­zione, ma que­sta è stata un’anteprima ecce­zio­nale per­ché arri­vava la voce dei dete­nuti del Nuovo com­plesso peni­ten­zia­rio di Firenze Sol­lic­ciano, dove il film è stato rea­liz­zato. Un mes­sag­gio di dolore il loro rivolto a tutti, incon­tro di uma­nità intensa e dolente, di sto­rie non espli­ci­tate ma che si pos­sono indo­vi­nare attra­verso i volti e le parole, sezione maschile e sezione fem­mi­nile a cui, fatto ancora più ine­dito, si aggiunge la voce delle guar­die car­ce­ra­rie. Alcune di loro sono «caser­mate» — come dicono in gergo a indi­care l’alloggio in caserma che signi­fica con­di­vi­dere i pro­blemi dei car­ce­rati, le pic­cole stanze dove cuci­nare, lavare, l’incontro for­zato con i col­le­ghi, i periodi ben più lun­ghi di permanenza.

Il «trat­ta­mento» Segre, come lo defi­ni­sce lui stesso, è pas­sato sul film come un mar­chio di fab­brica di etica cine­ma­to­gra­fica. Gli stu­denti che hanno fatto parte di que­sto labo­ra­to­rio par­ti­co­lare nel luglio del 2013 erano del secondo anno di regia, sce­neg­gia­tura, suono e mon­tag­gio: «Gli ho solo dato come regola prin­ci­pale quella di non chie­dere per nes­sun motivo ai dete­nuti le ragioni che li hanno por­tati in car­cere, non si doveva vio­lare la loro inti­mità. Il rispetto verso le per­sone è qual­cosa che si avverte e che porta ad aprirsi con fidu­cia. Que­sto si può impa­rare» spiega Daniele Segre.

I ragazzi hanno saputo uti­liz­zare al meglio que­sti con­si­gli, tanto che il lavoro ha un anda­mento inten­sis­simo, da una testi­mo­nianza all’altra secondo tutte le pro­ble­ma­ti­che della vita quotidiana.

Le celle angu­ste si diceva, «pic­cole come bagni» dove devono stare tre per­sone e tre letti a castello; la coa­bi­ta­zione for­zata, la man­canza asso­luta di socia­liz­za­zione con i dete­nuti delle altre celle se non per bre­vis­simo tempo (nel car­cere di Lecce invece, in alcuni set­tori, le porte restano aperte per tutta la gior­nata). Dal primo giorno «quando l’unica cosa che vuoi fare è dor­mire e non ci rie­sci», ma «devi cer­care di capire dove sei e non fare scioc­chezze, non pen­sare al sui­ci­dio», ai tre anni pas­sati «e allora non si fa più caso alle grida, al rumore delle chiavi, all’unica aper­tura verso l’esterno che è lo spioncino».

E poi l’ansia di poter uscire fuori da quei tre metri, l’accorgersi del venir meno delle parole per­ché si parla sem­pre delle stesse cose e si arriva all’assurdità di augu­rarsi l’un l’altro «buona doc­cia». Il peri­colo di allun­gare la pena sbat­tendo al muro certi che fanno per­dere la pazienza.

Il cre­scendo di inten­sità delle testi­mo­nianze tocca alle visite «che strap­pano il cuore», e pro­vo­cano ancora com­mo­zione anche nelle coscienze più indu­rite, nei volti più scol­piti dalla vita. La piog­gia in cella, le malat­tie non curate, l’impossibilità di avere un aiuto psi­co­lo­gico, il lavoro ancora più pre­ca­rio den­tro che fuori. Un pano­rama che mostra come il pro­getto di ria­bi­li­ta­zione non abbia nes­sun senso in situa­zioni del genere.

Ci ven­gono in mente i per­so­naggi che Daniele Segre ha osato avvi­ci­nare per la prima volta nella sto­ria del docu­men­ta­rio, invi­si­bili all’intera società come que­ste per­sone rin­chiuse, e che ora hanno la parola e in que­sto caso pos­sono dia­lo­gare a distanza con altri (anche se, affer­mano, il car­cere di Lecce è ben diverso). La rea­zione emo­tiva che abbiamo di fronte alle imma­gini è la prova che il film tocca tutte le corde più pro­fonde, una visione che lascia il segno, con la con­sueta pre­senza dell’attore Sal­va­tore Striano a fare da tra­mite calo­roso, la sua stessa espe­rienza di vita lo sta a dimostrare.

«Noi abbiamo chie­sto la pos­si­bi­lità di incon­trare dete­nuti — dice Segre — non abbiamo potuto scgliere, si sono pre­sen­tati quelli che vole­vano farlo e con loro abbiamo rea­liz­zato il nostro viag­gio. Le inter­vi­ste sono state più nume­rose di quelle che si vedono, abbiamo sele­zio­nato in base alla qua­lità di comu­ni­ca­zione che emer­geva dalle testi­mo­nianze. A Sol­lic­ciano ho chie­sto di incon­trare i dete­nuti senza la pre­senza della poli­zia e i ragazzi hanno potuto fare tutte le domande che vole­vano, anche que­sto è un fatto ine­dito. Se l’anteprima è stata fatta in que­sto car­cere vuol dire che qual­cosa deve cam­biare, se non solo Napo­li­tano ma anche il Papa sono intervenuti signi­fica che si può recu­pe­rare la dignità delle per­sone che qual­che volta viene cal­pe­stata». Sbarre è copro­dotto dalla Rai, aspet­tiamo di vederlo in programmazione.