http://www.ultrasblog.biz/2009/12/beppe-ci-manchi.html

Da Wikipedia: Con il termine ultras (o più correttamente ultrà) si definisce il tifoso organizzato di una determinata società sportiva, più frequentemente di tipo calcistico.Ultras. Una parola che, già da sola, per molti favorisce immediatamente il richiamo alla mente di qualcosa di negativo. Violenza, disordini, razzismo, etc…E c'è tutta una letteratura in materia: articoli, cronache, libri, telegiornali, film, e quasi sempre in un'unica direzione: storie di teppisti, di coltelli e di scontri con la polizia. Brutti, sporchi e cattivi. E violenti, pure. E difficili da identificare. L'ultrà spesso è senza volto, col cappuccio che gli copre la testa e la sciarpa che gli cela il viso; è anche senza nome, se non per i suoi amici: è un ultrà e basta. Non veste in modo convenzionale o alla moda: se la gente lo guarda, non lo capisce, e lui non vuole essere capito. E' fuori dagli schemi, dalle regole: è l'eccezione alla regola, e difende con intransigenza il suo modo di essere e di vivere.

Quindi, data la difficoltà di identificare e di capire, la strada più semplice è quella di liquidare la questione condannando: i preconcetti e i pregiudizi ai quali attingere sono tanti, e la figura dell'ultrà non è contemplata tra gli stereotipi considerati socialmente accettabili o graditi. Facile, no? Provare a capire senza giudicare è sicuramente meno agevole. Ma l'ultrà, quello vero, è il custode di un patrimonio di valori difficilmente ritrovabile in altri contesti. Un patrimonio fatto di attaccamento e sostegno incondizionato alla squadra, amicizia e cameratismo, rispetto per l'avversario, passione praticamente infinita, fino a sconfinare nel fanatismo, onore e ideali da difendere ad ogni costo. Anche se l'immagine che ce ne viene passata oggi è, in pratica, quella di un teppista, l'ultrà rappresenta, semplicemente, molti dei vizi e delle virtù della nostra gioventù.
Amplifica le emozioni e i sentimenti, non conosce vie di mezzo: ama e odia con la stessa intensità, attacca se attaccato, aiuta l'amico nel bisogno.
Molti ultras (soprattutto coloro che guidano i cori) voltano le spalle al campo durante la partita, sembra difficile comprenderli. Ma l'ultrà è allo stadio per sostenere e difendere la squadra e la bandiera, non necessariamente per guardare la partita: non ha bisogno degli occhi per vedere, gli basta sentire per partecipare. E' il dodicesimo uomo in campo, non assiste ad uno spettacolo, ma ne è uno dei protagonisti. Beppe Rossi era solito dire: “No, non li vedo 90 minuti di gioco, ne vedrò al massimo la metà. Ma bisogna che qualcuno organizzi il tifo e faccia il capo, sennò si rammolliscono tutti e guardano solo la partita”. Già, chi era Beppe Rossi?

Quando si parla di ultras e di curva Filadelfia, nel mondo bianconero il pensiero non può non andare a lui, a Beppe Rossi.
A Torino, il tifo organizzato granata nacque negli anni '50, dopo la tragedia di Superga; i primi gruppi di tifosi bianconeri organizzati, solo vent'anni dopo.
E nella seconda metà degli anni '70, dopo i pionieristici “Venceremos” e “Autonomia Bianconera”, nacquero “Panthers”, “Fossa dei campioni” e “Fronte bianconero”, dal quale nel 1977 (insieme ad alcuni amici) il non ancora ventenne Beppe Rossi diede vita a quello che fu, fino alla fine degli anni '80, il gruppo più importante della curva, i “Fighters”.
Proveniente dalla periferia torinese, aveva cominciato a farsi notare nella balconata della curva fin da quando, quindicenne (o giù di lì), guidava i cori con la sua passione, la sua trascinante allegria e l'innata capacità di leadership. In pochi, pochissimi anni, il ritardo nei confronti degli ultras della curva avversa fu annullato e recuperato con gli interessi: grazie alle intuizioni e al lavoro di Beppe e dei suoi amici, sparirono i tamburi dalla curva, arrivarono i primi cori “all'inglese” e il tifo scandito dal battito delle mani, si cercò di usare la musica come sottofondo, e nacquero le prime vere coreografie in curva Filadelfia. Coreografie, beninteso, costruite con tanto cameratismo e pochi mezzi: in quegli anni, di soldi per la curva non ce n'erano, e ci si ingegnava con rotoli di carta igienica, piatti di carta bianchi e neri, torce, e quant'altro la fantasia permettesse di reperire a poco prezzo. La fonte di finanziamento era costituita dalle collette, scatola di cartone in mano, fatte sulle gradinate della Filadelfia. E non era raro che fosse lo stesso Beppe ad occuparsene: il suo sorriso e la capacità di far sentire importanti coloro che stavano intorno a lui rappresentavano una garanzia per il coinvolgimento di più persone. Di fatto, la curva cominciò ad essere davvero gremita di bandiere, sciarpe, striscioni.
All'epoca, l'amore per la maglia e per il gruppo, lo spirito d'amicizia, il rispetto per il “nemico” e la lealtà verso il prossimo erano i principi ispiratori, i valori fondanti, non ancora mescolati con interessi egoistici, economici e politici, come invece purtroppo sarebbe accaduto, nello stadio e nella società, negli anni successivi.
Beppe Rossi era un ragazzo, che si ritrovò ad essere capo di un gruppo che fece la storia del tifo bianconero, senza essersi definito tale e senza averlo chiesto: “Non mi definisco capo, mi ci definiscono gli altri, forse per le cose che faccio, perché mi impegno per avere in balconata gli striscioni, che sono fatti da tutti e non solo da me, o perché organizzo il tifo e trascino i ragazzi, ma fare il capo è una cosa scomoda”.
Aveva dei giocatori un'opinione forse diversa da quella che ci si aspetterebbe: “Quando gioca la Juve, noi ci teniamo a loro, e tanto: sono loro che non tengono a noi. Sono persone normali, ma anche un po' montati: credono di essere dei superuomini solo perché giocano nella Juve. Noi chiediamo solo che in tutte le partite tutti si impegnino. Poi, si può anche perdere. L'importante è che si dia qualcosa anche ai tifosi, che la squadra si faccia sentire vicino alla curva e a chi grida sempre, e non distaccata. Ho pensato parecchie volte che, se la Juve ha vinto certe partite, è stato merito di tutti i tifosi”.

Di storie e aneddoti che lo riguardino se ne potrebbero raccontare a decine, correndo inevitabilmente il rischio di indulgere in quella retorica che, lo si voglia o meno, conferisce sempre al passato, e ai suoi protagonisti, un alone di superiorità morale rispetto al presente, non sempre giustificato da elementi reali. Storie di vita, di amicizia, di tifo… ma anche storie di ombrelli fatti chiudere nelle giornate di pioggia, di inviti in balconata a chi veniva da lontano, di birre davanti alle quali si stemperavano le tensioni, di consigli elargiti a chi andava in trasferta, di persone invitate a cambiar posto perché non cantavano, di potenziali risse sventate con un'occhiataccia, di propri vessilli difesi e di vessilli altrui conquistati, etc…
Non sono mancati, neanche per lui, errori, eccessi, esagerazioni, come per tutte le vicende umane. Anche Beppe Rossi, come molti della sua generazione, fece i suoi bravi sbagli: ebbe problemi legati alla droga ma, da combattente (non solo allo stadio, ma anche nella vita), riuscì a superarli, fondando poi un'associazione che aiutava i ragazzi che fanno uso di droga ad uscirne, lavorando anche come operatore in una comunità di tossicodipendenti.
Non era tutto bello allora, così come non è tutto brutto oggi. Il mondo ultras è in questi anni oggetto di restrizioni di ogni tipo: le società hanno tutte preso le distanze dai gruppi, fermando praticamente ogni aiuto dal punto di vista economico; l'unica forma di autofinanziamento rimasta e tollerata è rappresentata dal merchandising; l'imborghesimento generale, unito alla presenza delle pay-tv, allontana le persone dagli stadi; il dover, di fatto, rendere conto di ciò che si canta e di tutto ciò che si scrive sugli striscioni, pena la non ammissione; le limitazioni presenti (leggi speciali, biglietti nominativi, tornelli, etc.) e quelle future (tessera del tifoso, nuovi stadi) sembrano mettere sempre più all'angolo la figura dell'ultrà.
Certo, sarebbe facile dire che gli ultras non sono esenti da colpe, ma la premessa era quella di evitare i giudizi.

Beppe era dotato di grande carisma, espresso tanto nel creare il gruppo, quanto nel cementarne l'unione. Rispettato e stimato da tutti: difficile sentirne parlare male, anche dalle tifoserie avversarie. Capace di gratificare i componenti del gruppo, facendoli sentire protetti, ma anche importanti come singoli. Disponibile a dialogare con chiunque, sempre col sorriso sulle labbra. In grado di trasmettere entusiasmo anche in presenza di crisi o di conflitti tra i gruppi. Così lo ricordano coloro che l'hanno frequentato in quegli anni. Ma era, prima di tutto, un grandissimo tifoso, un vero tifoso: uno che il ruolo di capo se l'era guadagnato sul campo, uno la cui concezione del tifo era probabilmente anni avanti rispetto agli altri.
Qui si è cercato di parlarne e ricordarlo, non certo per mitizzare qualcuno (che, tra l'altro, non voleva proprio essere mitizzato), ma semplicemente per provare a raccontare, a chi magari non l'ha vissuto, come fossero lo stadio e la curva di quegli anni… tentando di farlo senza i paraocchi, senza i soliti luoghi comuni, i preconcetti e i pregiudizi di cui sopra. Troppo facile, sia sullo stadio di allora sia su quello di oggi, giudicare (spesso dall'esterno) o attribuire etichette, troppo facile generalizzare.
Probabilmente, la sola visione di questo filmato (tratto da “Ragazzi di stadio” di Daniele Segre, 1979), può già essere sufficiente a far comprendere cosa abbia perso il mondo del tifo calcistico (non solo il mondo ultras), quando Beppe Rossi se n'è andato, nel 1995, vittima di un male incurabile.

“Proprio il tifo che piacerebbe a me: dovrebbe gridare tutta la curva, tutti con le sciarpe, sarebbe una cosa eccezionale. Senza tamburi, senza niente… perché noi siamo stati i primi in italia a non mettere i tamburi, a far solo il tifo con le mani…
Però è certo che a me piacerebbe che tutta la curva si mettesse a gridare… non solo la curva, però mi basterebbe già quello: tutti con le sciarpe sarebbe una cosa eccezionale… veramente una cosa bella: purtroppo non si può, perché c'è troppa gente che viene allo stadio e sta zitta, invece lo stadio per me è un punto dove la gente dovrebbe venire a gridare, dove la gente dovrebbe venire a tifare veramente…
Invece, come quando vai a teatro: vai, ascolti, applaudi, però stai zitto, senti… lo stadio per me è un posto dove la gente dovrebbe… dovrebbe tifare per la propria squadra, non solo fischiarla quando gioca male, perché è comodo solo fischiarla e quando gioca bene stare zitti…
Tutti con le sciarpe… quello che vorrei vedere io è troppo avanti, non potrà mai venire, perché c'è troppo poca gente che si impegna veramente… io dico tutti, o la metà, ci si impegnasse tutti quel poco, ma tutti, riuscirebbe veramente qualcosa di furbo. Io li vorrei tutti con le sciarpe, ma tutti: giovani, vecchi… perché è un punto dove dobbiamo essere tutti amici, dobbiamo essere tutti quanti assieme, tutti quanti a tifare insieme per la squadra, che giochi bene o giochi male.
Quando vado in curva, prima di iniziare la partita, dico sempre ai ragazzi: qua non deve essere la Juve che vince, ma dobbiamo farla vincere noi… dobbiamo far prendere paura ai giocatori avversari col nostro tifo. I ragazzi li dobbiamo caricare al massimo, dobbiamo gridare 90 minuti su 90…
Li devi smontare gli altri: devi avere una curva tutta bianconera, tutta piena di sciarpe, di striscioni che fanno paura… paura nel senso che sono belli, che sono grossi, perché noi per me siamo quelli con gli striscioni più belli…”. Beppe Rossi